OTTANTASETTE i caduti Antifascisti nella sola provincia di Genova nel mese di Dicembre 1944, Trentotto nel mese di Gennaio 1945 e Ventotto nel mese di Febbraio.
Nel Tigullio, le vicende più note furono quelle di:
Rodolfo Zelasco “Barba” della Brigata “Coduri” , caduto il giorno 5 Dicembre presso miniera di Libiola di Montedomenico (Sestri Levante -GE)
Don Giovanni Battista Bobbio, Cappellano di Brigata (Comando Divisione Garibaldina “Coduri”) con il grado di Tenente, fucilato al poligono di tiro di Chiavari il 03 Gennaio 1945.
I Dieci caduti nell’eccidio de “La Squazza” (Borzonasca) il 14/02/1945
Acquario Fortunato “Ercole” nato il 25/09/’24 a Carasco, Brigata “Berto” Annuti Vittorio “Califfo” nato il 01/05/’21 a Castiglione Chiavarese, Div. “Coduri” Beorchia Otello “Venti” nato il 22/11/’14 a Arta (Ud), Div. “Coduri” Berretti Armando “Quattordici” nato il 21/04/06 a Sant’Anna di Stazzema, Div. “Coduri” Betti Augusto “Titti” nato il 23/10/’24 a Ponte dell’Olio (Pi), Div. “Coduri” Colombo Renato “Pesce” nato il 27/02/’25 a Vedano al Lambro (MB), Div “Coduri” Deambrosis Giovanni “Cian” nato il 06/03/’23 a Sestri Levante, Div “Coduri” Labbrati Erminio “Spalla” nato il 03/12/’28 a Genova, Div. “Coduri” Mori Domenico “Lanzi” nato il 23/08/’23 a Sestri Levante, Div. “Coduri” Noceti Ubaldo “Cobak” nato il 04/12/’22 a Lavagna, Div. “Coduri”
Il perchè di tanti caduti lo si può spiegare rileggendo la storia di quel periodo, quando gli Alleati per ordine del Generale Alexander emanarono l’omonimo “proclama” di metà novembre 1944, nel quale chiesero ai Partigiani in battaglia dietro la Linea Gotica di abbandonare i monti per la stagione invernale. Questa decisione spalancò le strade alla furia dei rastrellamenti nazi-fascisti che si accanirono sulle popolazioni di montagna, accusate di aver fiancheggiato i Partigiani nella lotta di Resistenza. I presidi dei comandi Partigiani rimasti sui monti dovettero affrontare, oltre al rigido inverno, l’impari lotta in solitudine contro l’invasore nazista spalleggiato dall’azione antipatriottica dei repubblichini fascisti.
Le formazioni di liberazione erano mal armate anche perchè i lanci alleati furono fortemente ridotti o in alcuni casi totalmente annullati, e ciò causò numerose vittime tra civili e Partigiani. Aver ignorato e disatteso il “Proclama Alexander” fu però una delle più grandi vittorie della Resistenza, pur pagandola a caro prezzo.
La scelta degli Alleati, in particolare dei britannici, era quella di bloccare la Resistenza italiana per renderla irrilevante politicamente. Chi combatteva per questo ideale, era di fatto abbandonato a se stesso in nome di interessi geopolitici del dopoguerra, chi invece era “dall’altra parte” e combatteva per un’Italia come era stata, ne approfittò invano per provare a sconfiggere e a spazzar via definitivamente i propri nemici.
Il Comando generale del Corpo Volontari della Libertà (CVL) venne istituito il 19 giugno 1944 quale evoluzione del preesistente Comando militare per l’Alta Italia. La decisione del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) venne presa per almeno tre motivi:
1) Risolvere il problema del coordinamento delle brigate partigiane che facevano capo ai diversi partiti;
2) Fornire loro, in modo unitario e coordinato, un sostegno logistico, economico e organizzativo;
3) Dar vita a un organismo militare che potesse dialogare ai massimi livelli con il governo Bonomi in carica nell’Italia centromeridionale liberata e con gli alleati, piuttosto restii a riconoscere un ruolo alle organizzazioni partigiane.
Del Comando generale facevano parte sei membri: uno per ciascuno dei partiti della Resistenza (Pci, Psiup, Dc, Partito d’Azione, Pli) più il consigliere militare. In caso di parità la questione veniva rinviata al CLNAI. In meno di un anno, il Comando generale del CVL riuscì a svolgere un ruolo rimarchevole nei confronti delle 110 brigate (oltre diecimila uomini), divenne interlocutore autorevole del governo e degli alleati e rappresentò la fonte in assoluto più accreditata di informazioni e comunicazione nell’ultimo anno di guerra. Il 25 aprile il Comando generale organizzò e guidò l’insurrezione finale in tutte le città del Nord e i suoi membri (Parri, Longo, Mattei, Stucchi, Argenton e Cadorna) aprirono la sfilata partigiana del 6 maggio 1945 a Milano.
Lo stesso 6 maggio, la bandiera del Corpo Volontari della Libertà (oggi custodita nel Museo Sacrario delle Bandiere al Vittoriano) venne decorata dal generale americano Crittenberger con la Medaglia d’Oro, conferita con Decreto Luogotenenziale del 15 febbraio 1945.
Il 15 giugno successivo il Comando si sciolse dopo aver ceduto i suoi poteri alle autorità militari alleate.
Tredici anni dopo, con la legge del 21 marzo 1958, n. 285, il CVL ottiene il riconoscimento giuridico di corpo militare regolarmente inquadrato nelle forze armate italiane. La norma sancisce giuridicamente quello che gli storici avevano già riconosciuto: il fatto, cioè, che la Resistenza italiana è stata un movimento di popolo che riuscì a darsi strutture politiche e militari capaci di essere protagoniste in prima persona, a fianco degli alleati nel processo di Liberazione del Paese.
Al comma 1 della suddetta legge, si recitava: «Il Corpo Volontari della Libertà (CVL) è riconosciuto, ad ogni effetto di legge, come Corpo militare organizzato inquadrato nelle Forze armate dello Stato, per l’attività svolta fin all’insediamento del Governo militare alleato nelle singole località».
L’eredità storica, politica e morale del CVL è stata assunta dall’omonima Fondazione che, costituita a Milano il 18 luglio 1947, aveva il compito di dare sostegno e assistenza ai partigiani in difficoltà e alle famiglie dei caduti e con l’obiettivo di approfondire e perpetuare la storia della Resistenza, la Fondazione ha sempre proseguito e prosegue il suo lavoro.
L’attività della Fondazione riprende oggi, con un nuovo direttivo, il suo cammino di valorizzazione dell’unità militare e politica della Resistenza.
Nel suo editoriale sul sito www.fondazionecvl.it, online da qualche giorno, così scrive il nuovo Presidente della Fondazione, Emilio Ricci:
“Nei primi trent’anni della sua vita, la Fondazione CVL, che ho l’onore di presiedere, si dedicò prima di tutto ad aiutare e sostenere (con iniziative assistenziali, economiche e sociali) i combattenti superstiti e le loro famiglie. Poi, col tempo e col venir meno di gran parte dei partigiani combattenti, la CVL ha voluto e dovuto farsi carico di un compito per certi versi anche più difficile: valorizzare, tramandare e tenere vivo il concetto di una Liberazione ottenuta anche grazie al contributo determinante di un esercito popolare.
Oggi si tratta di continuare quest’opera, di farlo con tutti i mezzi a nostra disposizione, di proseguire nel racconto e nella valorizzazione di quanto accadde negli anni della Resistenza ma anche di scoprire, portare alla luce, smascherare e combattere con determinazione i molti e diversi neofascismi che si annidano nella nostra società. Perché c’è il fascismo di chi nega ancora i fatti, di chi dice che la Resistenza fu una questione “tra fascisti e comunisti” e che di fascismo “non si può neanche più parlare” perché “è finito nel 1945”.
In Foto: Il Comando generale del Corpo Volontari della Libertà (C.V.L.) nella sfilata del 6 maggio 1945. In prima fila, a simboleggiare l’unità della Resistenza, i rappresentanti delle cinque forze politiche che parteciparono alla lotta di Liberazione, da sinistra: Magg. Mario Argenton (Pli e Formazioni autonome); Giovanni Battista Stucchi (Psiup); Ferruccio Parri (Partito d’Azione); Gen. Raffaele Cadorna (Comandante militare del C.V.L.); Luigi Longo (Pci); Enrico Mattei (Dc); l’ultimo a destra non è identificato. In seconda fila sono riconoscibili, sempre da sinistra: Ilio Barontini (Gap e Sap, con l’impermeabile chiaro), al suo fianco Aldo Lampredi, poi Fermo Solari, l’ultimo a destra è Walter Audisio (tutti e tre componenti del C.V.L.)
Don Giovanni Battista Bobbio, Cappellano di Brigata (Comando Divisione Garibaldina “Coduri”) con il grado di Tenente, fucilato al poligono di tiro di Chiavari il 03 Gennaio 1945.
Giovanni Battista Bobbio, da Alessandro e Rachele Zazzoli; nato il 3 luglio 1914 a Bologna. Sacerdote, studiò nei seminari di Bedonia e di Chiavari. Nel 1939 venne nominato parrocco di Valletti (SP), «poverissimo villaggio dell’Appennino Ligure». La zona, nel corso della Resistenza, fu sede del comando della brigata d’assalto Coduri Garibaldi. Divenne attivo collaboratore e cappellano della brigata, favorendo rapporti di reciproca comprensione tra i giovani resistenti e la popolazione. «Diede un grande apporto al lavoro di costruzione di una nuova vita democratica (giunte popolari, vettovagliamento sulla base della solidarietà, scuole). Fece da intermediario per portare reparti della Divisione alpina “Monterosa”, che presidiavano il passo di Velva e il litorale, ad accordarsi con i partigiani» e a passare nelle file della Resistenza, «così come il 4 novembre 1944 potè avvenire, a Torriglia, per il battaglione “Vestone”. Confluivano nei suoi tenaci e sempre più pericolosi tentativi, l’aspirazione cristiana e l’aspirazione patriottica a evitare altro spargimento di sangue tra fratelli e a vedere questi altri figli del popolo ricongiunti dalla parte giusta. Ufficialmente le sue funzioni, nei contatti che senza esito si ripetevano, erano quelle di intermediario: in realtà il nemico sapeva che egli era il cappellano della “Coduri” e al momento della rottura (per l’intervento dei tedeschi e del comando di divisione della “Monterosa”, messi sull’avviso), don Bobbio non nascose il suo sdegno all’ufficiale fascista.
Nel successivo rastrellamento in forze (29-30 dicembre 1944), attuato dai nazifascisti principalmente allo scopo di catturare Don Bobbio, quando fu evidente che Valletti sarebbe stata occupata, il sacerdote non cedette alle insistenze del Comando partigiano di mettersi in salvo: volle restare, sia come estrema difesa per i suoi parrocchiani, sia perché non intendeva ancora rinunciare al suo generoso obiettivo. La canonica fu presa d’assalto come un fortino, devastata, in seguito data alle fiamme come gran parte del paese. Don Bobbio, prima di essere trascinato via, dette ancora la sua assistenza a due giovani poi fucilati dai tedeschi e cercò di tranquillizzare la madre. Il calvario continuò nella notte e durante una sosta lo tennero legato a una palizzata, nel turbine della neve, per i sentieri che attraverso Comuneglia e Cassego portano a Santa Maria del Taro; poi in autocarro fino al carcere di Chiavari e, di lì, dopo due giorni di totale isolamento, al poligono di tiro: fucilato senza processo, il 3 gennaio 1945. Medaglia d’oro al valor militare alla memoria. A Chiavari lo ricorda un busto, in Via Medaglie d’Oro davanti al palazzo Comunale, con la seguente epigrafe: «Quando gli chiesero /al poligono di tiro /se voleva pregare prima di morire /ai nazifascisti rispose /Io sono già a posto con la mia coscienza /ma pregherò per voi /e cadde con le mani in croce /Don Bobbio /parroco di Valletti e della Coduri /a testimoniare /con serena fermezza /cristiana e partigiana /il valore di un’ intesa /salvatrice della patria e dell’umanità». «Alla fine della guerra i 15 parroci della zona – testimoni della sua azione pastorale – sottoscrissero un documento, che ha tutti i caratteri di un processo canonico, per rendere un sincero tributo di ammirazione alle virtù sacerdotali di quest’umile prete, che fu, soprattutto, il prete dei tempi nuovi».
Quando, nell’ottobre del 1945, la notizia della costituzione di una Commissione ministeriale per il riconoscimento delle qualifiche partigiane arriva in Liguria, sono già da tempo in atto diverse misure di iniziativa locale, indirizzate a certificare e censire i combattenti della lotta di Liberazione.
Nel maggio del 1945, lo stesso Cln (Comitato di Liberazione Nazionale), insediato all’Hotel Bristol, in Via XX Settembre n. 35 Genova, sin dai giorni della liberazione, aveva incaricato Farini Carlo Manes, allora Colonnello Vice Comandante del Cmrl, di presiedere una «Commissione per il riconoscimento del grado ai partigiani formata da un rappresentante per ciascuno dei sei partiti» (verbale riunione Cln Liguria del 26 maggio 1945), anticipando così, in larga misura, l’effettiva composizione indicata, nei mesi a venire, dalle circolari ministeriali.
La misura votata dal Cln si inserisce all’interno di quella serie di provvedimenti, voluti dalle singole Brigate e dalle singole Divisioni e volti a definire gli effettivi partecipanti alla guerra partigiana, con l’intento di realizzarne un quadro definitivo e ufficiale, rispetto ai numerosi enti certificatori locali. In previsione di ciò, il Comando Generale del Clnai dirama, nei primi giorni di giugno, una circolare indirizzata a tutti i Comandi Militari regionali del Cvl e ai comandi militari territoriali di Torino, Genova, Milano, Udine e Bologna, che mette in guardia, da coloro i quali, «alla resa dei conti si preoccupano di farsi rilasciare al più presto rapporti informativi e dichiarazioni che documentino la loro attività durante il periodo della resistenza» (lettera del 5 giugno 1945 del Clnai, n. prot. 215/0).
La sensazione, comune a molti, infatti era che l’eccessivo numero di tessere rilasciate dalle singole brigate sembra non essere il solo problema da affrontare, a complicare ulteriormente la faccenda contribuiscono, infatti, numerose formazioni e unità, nate a ridosso della Liberazione, che si adoperano per produrre rapidamente certificati e benemerenze di ogni tipo.
Si tratta di organizzazioni non autorizzate dal Cln e spesso legate ai vecchi nomi del fascismo repubblicano quando, nella peggiore delle ipotesi, non direttamente gestite da questi. A Genova, ad esempio, erano emersi i “Gruppi Cavour”, così descritti dalla stampa partigiana:
“così come la tartaruga che mette fuori la testa dal guscio quando il pericolo è passato così ora che non ci sono più né tedeschi né fascisti escono fuori i Gruppi Cavour” (“Il Partigiano” 30 Giugno 1945)
Assieme a questi, sorta probabilmente con lo stesso intento, era nata la “Brigata Sap Entella” che si occupava di realizzare tessere e benemerenze a presunti partigiani del levante genovese, senza alcuna approvazione o riconoscimento da parte del Comitato di Liberazione.
Per usare le parole con le quali Roberto Battaglia, all’epoca ai vertici del Servizio assistenza ai partigiani del Ministero per l’assistenza post-bellica, si riferisce alle situazioni locali:
«indubbiamente questo è il problema più delicato lasciatoci in eredità dalla guerra di Liberazione che si è svolta con caratteristiche regionali varie, ora con reparti organizzati in disciplina militare ora con gruppi armati quanto mai fluidi e difficilmente controllabili. Il compito affidato alle commissioni è stato in sostanza quello di regolarizzare una guerra che per sua natura è stata irregolare» (Il Ministero dell’Assistenza per i Partigiani, in “Il partigiano”, 5 ottobre 1946).
La lotta di Liberazione si era dotata di uno strumento di controinformazione alla propaganda repubblichina fascista.
Non era inusuale trovare sui manifesti affissi dalle camicie nere sopra le case e i muri delle città, proclami nei quali si intimava la chiamata alle armi al fianco dell’invasore tedesco, oppure minacce di ritorsioni su chi avesse partecipato o sostenuto la causa partigiana.
La lotta clandestina non avveniva solo attraverso la guerriglia ma fu anche una battaglia verbale sul piano della comunicazione, di frequente i suddetti manifesti venivano coperti da altri dalla Resistenza, dove si indicava quello di Salò come uno stato fantoccio al servizio di Hitler e Mussolini.
Nel territorio del Tigullio per le file resistenziali agivano la Divisione “Cichero” e la Divisione “Coduri”, queste due formazioni si dotarono di giornali clandestini denominati “Il Partigiano” e “La Voce Garibaldina“, quale strumento di comunicazione e propaganda Antifascista.
“La Voce Garibaldina” aveva cadenza settimanale ed era realizzato con il ciclostile, è impaginato su due colonne e stampato su fogli formato a4, la prima uscita è datata 10 Marzo 1945. Il responsabile della pubblicazione era l’addetto stampa della Brigata Coduri, Vladimiro Cosso “Miro”(Vice Commisario con funzioni amministrative), compagno per i 69 anni di vita successivi di Irene Giusso “Violetta”.
Il primo numero de “La Voce Garibaldina”
Alcune rubriche sono fisse, come per esempio in prima pagina “L’azione è la nostra miglior difesa”, in cui si raccontano le azioni militari portate a termine dalla formazione. Sempre presente anche la rubrica “La Guerra di Liberazione”, in cui si tratteggia la situazione politica e militare livello nazionale e internazionale. La rubrica “Eroi” ricorda i caduti mentre “Voci della Coduri” da spazio agli scritti dei partigiani. Non mancano gli attacchi alle formazioni della RSI presenti in zona, nello specifico la Divisione Alpina Monterosa.
La nascita del “Il Partigiano” è frutto dell’idea di Anton Ukmar “Miro”, prima capo della Delegazione Garibaldi del triumvirato insurrezionale genovese e poi, dall’agosto 1944, membro del Comando Unificato militare Ligure e comandante della VI Zona Operativa.
Giunto a Bobbio da Genova nel giugno del 1944, Ukmar si prodiga per la realizzazione di un giornale clandestino in grado di diffondere e divulgare gli ideali della lotta di Liberazione e di gettare le basi dell’Italia post bellica.
Il primo numero de “Il Partigiano” esce il 1° agosto 1944 a Bobbio, con il sottotitolo “organo della divisione garibaldina Cichero” e solo nel settembre dello stesso anno, con il numero 7 (27 settembre 1944) appare la dicitura “organo della Sesta Zona Operativa”.
Attorno a “Il Partigiano” viene ben presto a crearsi una vera e propria redazione sotto la direzione di Giovanni Serbandini “Bini”, già responsabile della sezione stampa della 3° divisione garibaldina “Cichero”, nominato in seguito responsabile della sezione stampa e cultura dell’intera VI Zona operativa.
Durante la clandestinità vengono pubblicati 15 numeri, dall’agosto 1944 all’aprile del 1945, distribuiti al costo unitario di una lira. Alla realizzazione del periodico collaborano, tra gli altri, i partigiani Giorgio Gimelli “Gregory”, Mauro Orunesu “Luciano”, Spartaco Franzosi “Spartaco”, Kino Marzullo “Kim”, Stefano Porcù “Nino”; i pittori Nicola Neonato (“Pollaiolo”), Renato Cenni (“Acido”) e Vittorio Magnani (“Marcello”) si occupano dell’impaginazione del foglio e della realizzazione delle illustrazioni che arricchiscono il testo. La diffusione de “Il Partigiano”, così come il processo di produzione, dipendono fortemente dalle vicende militari che coinvolgono la Zona operativa. La stampa, che avviene in un primo periodo nella Bobbio libera (con una macchina del 1890), viene spostata a Bettola a causa del rastrellamento di agosto 1944 e solo nel novembre dello stesso anno la sede editoriale torna a Bobbio, per poi essere nuovamente spostata nel paese di Scorticata durante il rastrellamento invernale.
Il reperimento di un nuovo ciclostile e le ampliate possibilità permettono, nel marzo del ’45, l’apertura di una seconda tipografia a Foppiano, nei pressi di Gorreto, portando la tiratura a circa 5-6.000 copie e permettendo la diffusione del periodico nelle edicole della Val Trebbia e di Genova. Nell’aprile del 1945 prende vita anche il supplemento “Stampa Libera”, anch’esso distribuito al costo di una lira. La pubblicazione de “Il Partigiano” prosegue con le stesse finalità nel dopoguerra, quando la testata diventa organo ligure dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Nonostante la matrice comunista del direttore e dei redattori, “Il Partigiano” mantiene una linea rispettosa delle altre affiliazioni all’interno della Cichero e della Zona Operativa dalla quale scaturisce una prosa brillante e ricca che si sviluppa in numerose rubriche che spaziano dalla memorialistica al bollettino di guerra, senza tralasciare la politica, la cronaca e l’arte partigiana.
Nei primi tempi del conflitto le incursioni aeree sono rare e di lieve entità, ma dall’autunno del 1942 gli anglo-americani intensificano i bombardamenti strategici sulle città Italiane, non solo per distruggere impianti industriali, nodi ferroviari, attrezzature portuali e altri obbiettivi militari, ma anche per indebolire il morale del cosiddetto fronte interno ed esercitare una pressione di tipo terroristico sulla popolazione.
Questa deve essere resa consapevole del fatto che di fronte allo strapotere del potenziale economico e militare Alleato la sconfitta è inevitabile, mentre la conoscenza dei pericoli cui sono esposti i loro cari nelle città deve fiaccare lo spirito combattivo dei soldati al fronte.
Guerra e città, secondo le indicazioni del Moral Bombing britannico, divengono così concetti inseparabili, legati tra loro indissolubilmente dalla necessità di piegare armi e governi nemici deprimendo lo spirito dei cittadini inermi.
E’ indispensabile, afferma la direttiva del Bomber Command britannico del 9 Luglio 1941, abbattere in generale il morale della popolazione civile, soprattutto quello degli operai dell’industria. «Grazie alle vittime del massacro si purifica il morale di chi resta, fino alla redenzione». Non è un caso inoltre che gli attacchi più distruttivi sulle città italiane siano portati nel periodo compreso tra il 25 Luglio e l’8 Settembre 1943, quando, caduti Mussolini ed il regime fascista, si svolgono febbrili trattative segrete tra emissari del nuovo governo italiano ed Alleati, per giungere ad una resa il meno possibile onerosa. I bombardamenti terroristici hanno così anche lo scopo di spingere il governo Badoglio ad una rapida decisione, sulla pelle della popolazione civile.
I bombardieri si accaniscono su Torino, Milano, Genova, Napoli, Palermo e su tutte le città strategicamente importanti, provocando immani distruzioni e un alto numero di morti e feriti, costringendo milioni di persone a sfollare, a lasciare cioè le loro abitazioni in cerca di un nuovo alloggio nelle campagne e nei paesi meno esposti alla minaccia delle bombe.
Qui di seguito pubblichiamo il testo dei report dei bombardamenti Alleati su Chiavari tra i mesi di maggio e luglio 1944:
12/05/44 Twelfth AFAround 730 B-17’s and B-24’s (largestHBforceusedbyFifteenth AFonanydaytothistime)attack ………….. marshalling yard and railroad bridge at Chiavari …. 11/07/44 Twelfth AFWeather again hampers operations. MBsattackM/YatAlessandria,hit approach to railroad bridge at Chiavari, and score near misses on other bridges.
15/07/44 Twelfth AF………….. raids which struck bridges at Chiavari …………. HQ 321st BG War Diary: Four more missions in the Mallory Plan totaled 87 sorties this date. ………………. for the afternoon mission so they turned around and smothered the Chiavari Rail Bridge—alternate target. 321st BG Mission No 441 Date: 15 Jul44 No A/C completing mission: 25 Squadrons: 445- 7 446- 6 447- 6 448- 6Target: ……………….. bombed alt. Chiavari Rd BridgeTime OFF: 1711 T.O.T.: 1900 Time Down:2010
445thBSMissionSummary(OpsOrder 441/mission441)Group Mission # 441: Squadron Mission: 309TARGET: ………………… bombed alt. ChiavariRdBridge Inthesecondmission,7planeswere sent from the squadron on the mission sent to attack the same target this time with a bombing accuracy of 58-%.
447th BS Mission Summary (Ops Order 441/mission 441)Group Mission # 441: Six of our ships participated in a raid on the Chiavari RR Bridge,Good concentration of bombs on west end and west approach. One Cluster over and cutting road north of target and west of road bridge. Bombing accuracy 100%; Mission efficiency – 100 %.
448th BS Mission Summary (Ops Order 441/mission 441)Group Mission # 441: Mission 292 (441): ………………… 12 planes dropped 48 x 1000 bombs on alternate target of Chiavari RR/B at 19:00 hours from 11,000 feet. no flak at alternate, chaffused.
17 luglio 1944, ore 6,40 – non si contano parecchi danni, solo una bomba inesplosa si conficca ad una profondità di due metri sul terreno antistante l’entrata della Caserma di Caperana; l’ordigno verrà poi fatto brillare in una cava di ardesia di Cicagna.
Borgotaro, Monte Penna e Iscioli, i luoghi e i fatti che determinarono l’elezione di Eraldo Fico “Virgola” a Comandante della Formazione Partigiana nota poi come “Brigata Coduri”, divenuta Divisione dal 24 Aprile 1945:
Verso i primi di Luglio del 44′ una cinquantina di partigiani del casone di Sesco si avviarono verso Codivara nel comune di Varese Ligure per incontrarsi con Italo. L’incontro col gruppo comandato da Bruno avvenne a Comuneglia. Italo prima di procedere al riassetto e all’organizzazione della formazione spiegò ai partigiani che era necessario darsi un nome di battaglia per ragioni di necessità contingenti. Giovanni Sanguineti assunse il nome di battaglia di « Bocci », Eraldo Fico « Virgola», Giovanni Agazzoni «Moschito», Italo Fico « Naccari » e così via per tutti gli appartenenti alla banda. Indi si passò all’assegnazione dei posti di comando: comandante della formazione fu nominato Bruno (Bruno Solari di Chiavari), ex ufficiale del Regio Esercito forse laureato in ingegneria; si trovava in quel tempo a Comuneglia, al comando di una quindicina di bersaglieri, disertori dalle file dell’esercito della R.S.I. con i quali aveva costituito un gruppo di sabotatori, vice comandante fu eletto «Virgola» (Eraldo Fico), commissario politico Italo (Arpe Armando), capo di stato maggiore Bocci (Giovanni Sanguineti). Vennero nominati anche dei capi squadra tra cui Giuseppe Coduri.
Il 10 Luglio 1944 la formazione, forte di una settantina di effettivi, rientra a Iscioli nel comune Né dove provvisoriamente si disloca.
“II 15 luglio 44′ giunse a Iscioli una staffetta di Bill, comandante di una formazione partigiana che operava sul Penna e nella valle del Taro, per chiedere aiuti alla formazione di «Bruno» in quanto circa 150 uomini della « Centocroci » e di «Bill» erano impegnati da 4 giorni a contendere il passaggio a preponderanti forze tedesche della 42a Divisione « Alpenjager » alla strettoia della Pelosa nei pressi di Pontestrambo. A Borgotaro era stata costituita di recente una repubblica partigiana (Libero Territorio della Valtaro) con la collaborazione delle forze della Resistenza operanti in quella zona. Ciò non piacque ai tedeschi che per debellare le forze partigiane inviarono ingenti forze allo scopo di occupare Borgotaro. Gli uomini di Beretta e di Bill contesero il passaggio ai tedeschi dall’11 al 15 luglio provocando al nemico ingenti perdite (si dice circa un centinaio di morti e 84 prigionieri). A causa della scarsità di munizioni e sull’orlo del tracollo fisico Beretta e Bill chiesero aiuto un po’ ovunque nel tentativo di far desistere i tedeschi dal loro intento di occupare Borgotaro. Alla richiesta di aiuti il comandante « Bruno » si dimostrò titubante facendo ritardare l’intervento dei suoi uomini. Il vice comandante « Virgola » e il commissario « Italo » partirono invece alla testa di un forte gruppo per portare aiuto a Bill e Beretta. Ma quando giunsero sul luogo, questi ultimi si erano già ritirati. I tedeschi apertasi la via per la valle del Taro procedettero immediatamente a rappresaglia contro una famiglia che abitava nelle vicinanze del combattimento, passandola interamente per le armi, compreso un anziano Ottantenne e un bambino di soli 3 anni. Indi avanzarono verso Borgotaro occupandola e dando fine alla Repubblica Partigiana. Su questo episodio Arpe Armando (Italo), racconta nelle sue memorie: « I componenti del nostro gruppo non furono affatto contenti del comportamento del comandante «Bruno», ed io, intuendo il malumore e il risentimento degli uomini, me ne preoccupai molto. Ne parlai a « Bruno » ma costui non intendeva modificare il proprio atteggiamento. Ricordo che fu proprio «Gronda» a dirmi: “Da noi il vice comandante e il commissario sono sempre presenti alle azioni, e il comandante dov’è?”. Intanto la formazione, forte ormai di circa 110 effettivi, si sposta da Iscioli a Velva con lo scopo, seppure impegnativo, di occupare il passo di Velva, nodo stradale strategico per l’accesso alla Val di Vara. Arrivati a Velva, il malumore contro il comandante « Bruno » si intensificò. In tale situazione – continua « Italo » – con un comandante che non godeva la stima e la fiducia dei partigiani, ne trassi la conclusione che bisognava arrivare ad una decisione. Ne parlai a « Virgola » e quindi mi recai a Loto in cerca di Sanguineti Giovanni “Bocci”, ove costui aveva un recapito per il collegamento con il C.L.N. e altri organi insurrezionali e di partito dai quali riceveva disposizioni e aiuti per la nostra formazione. Gli spiegai la situazione insostenibile che si era venuta a creare nella banda. Egli convenne con me di adottare una soluzione radicale del caso: procedere ad elezione democratica del comandante.
Ritornai a Velva, riunii la formazione sul prato antistante il Santuario, esposi agli uomini la situazione determinatasi e la necessità di procedere ad elezioni democratiche del comandante. L’elezione si svolse a scrutinio segreto, ritagliati tanti bigliettini, li distribuii a tutti i compagni indi li posi in un cappello e alla presenza di « Bruno » e di « Virgola », estrassi i risultati. Tutti meno 4, elessero « Virgola » comandante della formazione. «Bruno» e i suoi tre elettori abbandonarono la formazione il giorno dopo e rientrarono a Cichero ove costituirono la squadra sabotatori della divisione omonima.
L’elezione lascia trasparire i presupposti democratici che stavano scaturendo da coscienze in fase di rinnovamento, da coscienze libere e autonome che stavano creando le prospettive della futura Italia democratica. La formazione, in quel contesto sociale e storico, stava assumendo le caratteristiche di un vero e proprio esercito popolare di Liberazione che aspirava ad una radicale trasformazione politica e sociale del Paese, allontanando dalle proprie file quegli elementi dirigenti ancorati e fissati alla vecchia tradizione politica e militare“.
Liberamente tratto dal Libro “Storia della divisione Garibaldina Coduri” di Amato Berti e Marziano Tasso
Il mese di maggio 1944, cosi’ come i mesi successivi di quell’anno, segnarono in maniera indelebile la storia d’Italia ed in particolar modo quella dei territori Ligure ed Emiliano.
Le SS tedesche in collaborazione con i fascisti italiani, che aderirono alla Repubblica di Salò, si macchiarono di efferati eccidi e trucidazioni a danno della Resistenza e della popolazione civile.
Migliaia furono le vittime che a loro malgrado in quel momento si ritrovavano dietro la linea gotica, ultimo fronte di difesa dell’invasore nazista.
Ciò che proverò a fare nelle prossime righe sarà quello di raccontare una vicenda poco conosciuta, se non attraverso qualche cenno sui libri che parlano della lotta di Resistenza locale.
Due storie che ho incrociato per caso durante una gita in montagna con la famiglia, dove una piccola cappelletta bianca a bordo strada ha attirato la mia attenzione, all’interno una lapide sulla quale sono incisi i nomi di due persone poco più che adolescenti.
Sono due giovanissimi ragazzi, Giuseppe Pavesi di anni 21 (Partigiano) e Savina Lusardi di anni 17, vivevano sul confine tra l’Emilia e la Liguria ed esattamente ai piedi del Monte Penna, in piccole frazioni del Comune di Bedonia (in provincia di Parma).
Ho iniziato cosi’ una personale ricerca, e grazie anche all’aiuto di alcuni amici dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, scopro che Giuseppe Pavesi ha combattuto per la Lotta di Liberazione: Nasce il 22/09/1923 a Bedonia, deceduto (fucilato) il 24/05/1944 a Prati di Setterone ai piedi del Monte Penna. Fu Partigiano dal 15/02/44 nella 32° Brigata Garibaldi “Monte Penna”.
Dopo aver pubblicato un post sui social media conosco Giovanni Calzi, cugino di Giuseppe, che per mia fortuna legge quanto ho scritto e si mette a disposizione per mettermi in contatto con il fratello del Partigiano Pavesi, il suo nome è Zeffirino (classe 1938).
Nel frattempo il Presidente ANPI della provincia di Parma, Aldo Montermini, mi scrive riportando dei riferimenti tratti dal libro: “L’Alta Val Taro nella Resistenza” di Giacomo Vietti (ANPI – Parma 1980).
Il libro racconta dei rastrellamenti operati dalle truppe tedesche e dai militi della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) nel maggio del 1944. Precisamente il 23, 24, 25, pochi giorni prima della costituzione del Libero Territorio della Val Taro, anche se breve, esperimento di amministrazione civile partigiana di un territorio liberato.
In particolare sono due le pagine sulle quali focalizzare l’attenzione.
A pagina n. 180 si parla di Giuseppe “falciato mentre cerca di sganciarsi dall’accerchiamento”.
Mentre a pag. 182 si legge: “Nel corso del rastrellamento viene pure uccisa a Costa d’Azzetta una ragazza di 17 anni, Lusardi Savina, la quale sorpresa da una pattuglia di tedeschi mentre pascolava le pecore ed impauritasi alla vista dei soldati viene uccisa a colpi di fucile mitragliatore mentre cercava di scappare”.
Qualche giorno più tardi riesco a parlare con Zeffirino Pavesi, dalla sua testimonianza riaffiorano i risvolti più atroci di queste due vicende, che accadono a poche ore l’una dall’altra ed entrambe avranno epiloghi drammatici.
Zeffirino fotografa così le due storie e con lucidità mi racconta dettagli inediti:
Giuseppe incontra il suo assassino durante una sosta in un casolare a Prati di Setterone, insieme ad altri due compagni di brigata, mentre una contadina si apprestava a rammendare i vestiti malconci dei tre Partigiani.
Accade tutto molto velocemente, vengono accerchiati da un gruppo di fascisti della GNR che gli scaricano addosso i proiettili in canna nei loro fucili, Giuseppe nell’estremo tentativo di opporre una difesa spara, il colpo scalfisce in fronte l’assassino Repubblichino.
Non è un colpo mortale, come quello che invece subisce Giuseppe, ma lascia comunque sul volto della camicia nera una cicatrice che permetterà ai parenti di Pavesi di riconoscerlo una volta conclusa la Lotta di Liberazione.
Ai contadini, testimoni di questa terribile scena, non resta che il corpo di Giuseppe da seppellire poco distante dal casolare.
Solo qualche giorno più tardi la famiglia riuscirà a recuperarlo, lo fecero di notte con le slitte e i buoi, mettendo a rischio la loro stessa vita perché i nazifascisti presidiavano ancora la zona.
Giuseppe fu così seppellito definitivamente a Spora (frazione di Bedonia), insieme alle spoglie di Savina.
Savina Lusardi era una giovane contadina di diciassette anni, abitava nella frazione di Costa d’Azzetta e proprio in quel luogo si trovava un comando nazista, che presidiava la vallata con mitragliatrici poste in prossimità del rifugio del Monte Penna.
Nella giornata del 24 Maggio 1944, Savina insieme alla sorella Anna e all’amico Andrea Lusardi, chiedono il permesso al comando tedesco per poter risalire la strada verso il Penna per poter recuperare il bestiame al pascolo, una volta ottenuta l’autorizzazione si incamminano verso il monte.
Giunti in prossimità del Passo della Tabella vengono travolti da una raffica di mitra, i tre si gettano d’istinto in un canale ma senza pietà alcuna furono seguiti dai Repubblichini e lì Savina incontrò la morte.
La sorella Anna, nonostante due colpi di mitra all’addome, riuscì a salvarsi così come Andrea, colpito da una pallottola che entrata da sotto l’occhio gli fuoriuscì dall’orecchio.
La preziosa testimonianza di Zeffirino Pavesi mi lascia senza fiato, quindi mi chiedo che senso abbia sparare contro civili disarmati che hanno avuto come unica colpa quella di dover portare avanti il proprio lavoro di contadini? Qual è il senso di colpire per uccidere chi è inerme?
Ovviamente non ho altra risposta a queste mie domande se non quella di una vile e cieca barbarie innescata da un’ideologia di sopraffazione e disumanizzazione, come furono temporalmente prima quella fascista e poi quella nazista.
La pacatezza di Zeffirino nel racconto di quei terribili momenti, che nelle parole non lascia trapelare alcun rancore, mi riconcilia.
Nonostante siano trascorsi 76 anni, il ricordo del fratello maggiore e della cugina Savina è ancora vivo. Un ricordo indelebile, che insieme ai parenti li ha spinti a celebrarne la memoria con la costruzione di una piccola cappella bianca sul Monte Penna.
Zeffirino ancora oggi, nonostante il peso degli anni, mantiene vivo quel luogo con visite costanti nel tempo e fiori.
Il nostro compito oggi è quello di raccogliere queste testimonianze per non abbandonarle all’oblio.
La memoria è un dovere e solo se mantenuta correttamente con pervicacia può garantirci un futuro di democrazia e pace.
Come un “grande fratello” che dall’alto controlla ed intimorisce chi sta ai suoi piedi, a Chiavari sulla collina delle Grazie in mezzo alla vegetazione si trovano i resti di un osservatorio affacciato sul mare e sulla città.
Per comprendere appieno cosa questa minaccia rappresentasse per Chiavari e per tutto il golfo del Tigullio è necessario fare un passo indietro di 75 anni.
E’ il 25 aprile 1945, i Partigiani e gli alleati trovano una tenace resistenza prodotta dal fuoco delle batterie tedesche che incessantemente colpiscono dalla zona del Curlo e dalle Grazie.
Sulla sponda chiavarese dell’Entella si apre un fronte di fuoco, sono le postazioni di retroguardia della colonna Pasquali che non permettono alla Brigata Garibaldina “Zelasco” di entrare a Chiavari passando dal ponte, oggi conosciuto come ponte della Libertà. Nel frattempo sul lato lavagnese dell’Entella, si allineano i carri armati alleati che neutralizzano il fuoco di sbarramento nazi-fascista, questo però li espone al tiro dei tedeschi che cannoneggiano dalle Grazie. La colonna di carri è talmente numerosa che giunge oltre l’altro capo di Lavagna.
Il Comando alleato decide cosi’ di prendere possesso della città bombardandola via mare, ma questa scelta trova la forte opposizione del Comandante Eraldo Fico “Virgola” della Brigata “Coduri” (che da li’ a poco sarebbe diventata Divisione).
“Virgola” riesce a convincere gli alti comandi alleati ad attendere ancora qualche ora, offrendosi di impegnare uomini della Resistenza per liberare una volta per tutte dai nazi-fascisti la città di Chiavari.
Questa scelta comportò vittime tra le fila partigiane ma salvò la popolazione civile dalla distruzione e dalla morte.
Fra le vittime partigiane cadute in quei giorni di Aprile del 1945 si ricordano Ottorino Bersini “Basea” (caduto a Chiavari), Rugi Marino detto Ruggi Mario “Otto” , Antonio Minucci “Scorpione” e Fè Luigi “Furio” (caduti a Lavagna), per conoscere le loro storie e visualizzare nella Mappa digitale la posizione delle lapidi, che ne ricordano il luogo di caduta, clicca sopra i loro nomi.
Per dettagliare meglio quei momenti si riporta qui di seguito un interessante estratto Dal libro: “Cosa importa se si muore” di Mario Bertelloni e Federico Canale (Res Editrice, Milano, 1992):
Mercoledì 25 aprile [1945]. (,,,) La signora Westermann, titolare dell’albergo in via Romana, dove tra l’altro i tedeschi sono di casa, si fa portavoce di una mediazione con il comandante della batteria. Questi, un austriaco, si impegna a non sparare purché non attaccato dai Gap o dai partigiani. Tutto sembra procedere nel migliore dei modi quando, verso le ore 15, il comandante della batteria del Curlo, tale capitano Campanini, ordina di aprire il fuoco contro le truppe alleate dislocate sul lungomare di Cavi. (…).
Gli alleati centrano un bunker sotto il santuario delle Grazie ma è come aver pescato un jolly perché non riescono a comprendere da dove arrivino le cannonate.
Giovedì 26 aprile. (…) Prima della ritirata, pionieri tedeschi minano le postazioni delle Grazie; sotto il Santuario c’è un’autentica santabarbara. Jan Zacher e Jan Wegner, [polacchi] dell’artiglieria germanica, evitano la distruzione della chiesetta; Wegner taglia con un colpo d’ascia il filo della carica prima che salti tutto in aria e con il commilitone corre a nascondersi. (…)Nove anni più tardi (…) quell’ufficiale tornerà a Chiavari per ringraziare del trattamento riservatogli al momento della cattura (…)
Ecco alcune testimonianze anonime di quei ultimi concitati momenti prima della Liberazione:
“La batteria delle Grazie venne approntata per essere distrutta ed abbandonata la mattina del 25 aprile. L’improvviso apparire delle avanguardie americane a Cavi indusse i tedeschi a rioccupare la posizione ed intervenire bombardando l’Aurelia. L’azione rallentò la progressione degli americani permettendo ad un grosso gruppo (la famosa “colonna Pasquali”) di ritirarsi in direzione di Genova lasciando lo squadrone esplorante divisionale (della divisione Monterosa) a condurre un’azione ritardatrice sulla riva dell’Entella. Con l’approssimarsi del combattimento, la batteria non fu più in grado di supportare i bersaglieri battendo bersagli lungo la foce del fiume, cioè presentanti una notevole depressione. Nel pomeriggio i tedeschi abbandonarono definitivamente la posizione rimuovendo i congegni di sparo dei due pezzi sotto l’azione della controbatteria americana (598° FA Bn). I danni ancor oggi visibili sono stati causati dal tiro diretto degli Tank-Sherman e gli M-10 (Tank Destroyers) che appoggiarono l’assalto del 2/473° lo stesso giorno”.
Ciò che tenne sotto scacco la lotta di Liberazione fino al 25 Aprile 1945 fu il cannone binato delle Grazie, posto qualche metro sopra il bunker osservatorio.
Era lo stesso che fu installato sugli incrociatori della “Classe Capitani Romani” (2 x 135/45 mm) Mod.OTO-1937 . Quest’arma era considerata la migliore che sia stata costruita nella Seconda guerra mondiale. Aveva una gittata di 20.000 mt. ed era perciò in grado di colpire qualsiasi bersaglio presente nel golfo Tigullio, da Portofino a Sestri Levante.
Mod.OTO-1937
Oltre alla posizione strategica del luogo, i tedeschi scelgono quella postazione del Golfo del Tigullio perchè non trascurarono neppure l’ipotesi di uno sbarco Alleato sulle spiagge di Chiavari, Lavagna e Cavi di Lavagna, i cui alti fondali ben si prestavano ad una rapida conquista della Via Aurelia e della Ferrovia che transitano, tuttora, a pochi metri dal bagnasciuga.Numerose sono le “tracce” delle difese costiere in cemento armato per contrastare l’eventuale sbarco degli Alleati, comeil muraglione anti-sbarco, visibile ancora oggi lungo tutto il litorale.
Proprio per questo timore, lungo la Riviera orientale la Wehrmacht fece costruire numerose tipologie di così dette “casematte” . Le più note avevano forma cubica o circolare con una feritoia rivolta verso al mare da cui spuntava un cannone da 50 mm pronto a fermare gli Alleati sulle nostre spiagge. Molte altre casematte, che affiorano tuttora tra le sterpaglie lungo le spiagge, furono per lo più costruite con tre o quattro feritoie ed erano armate con nidi di mitragliatrici di vario calibro. Le casematte più comuni erano note con il nome di tobruk e s’ispiravano alle postazioni italiane installate durante la Campagna del Nordafrica. L’efficacia di queste piccole fortificazioni convinse i tedeschi ad adottarle anche per la difesa delle coste liguri costruendole in cemento armato e incassandole a terra con piccole “riservette” per le munizioni. Spesso i tobruk venivano costruiti anche per la difesa delle batterie di maggiori dimensioni, mentre altre particolari costruzioni in cemento armato, contenevano una camera di combattimento circolare, dov’erano presenti almeno quattro feritoie armate di mitragliatrici che sbarravano l’accesso alle principali vie di comunicazione litoranee e funzionavano da posti di blocco costieri.
Le maestranze Tedesche, in collaborazione con specialisti dell’Ansaldo, della Oto Melara e dell’Arsenale di La Spezia, allestirono nuove batterie costiere utilizzando l’abbondante numero di pezzi campali catturati al Regio Esercito dopo l’8 settembre 1943.
La postazione del “Cannone delle Grazie” era rifornita da terra (S.S. Aurelia) e via mare tramite sentieri più o meno nascosti, anche per mezzo di un elevatore ubicato presso una galleria a livello del bagnasciuga. Sono inoltre visibili altri bunker per nidi di mitragliatrici e supporti per apparati di telecomunicazioni. L’osservatorio bunker era munito di telemetro per il calcolo della distanza degli obiettivi.
Qui di seguito alcune immagini recenti del Bunker delle Grazie, dove oltre all’ingresso è ancora ben conservata la piastra del basamento con i perni in acciaio sopra i quali venne posizionato e fissato il telemetro:
La scelta dell’ubicazione del sito fu senza dubbio oculata, poiché i Nazisti tennero conto della vicinanza del Santuario che garantiva l’uso delle varie utenze: luce, gas, acqua e linee telefoniche, oltre alle ben note vie di fuga nelle varie direzioni.
La stato di conservazione di queste costruzioni è di abbandono, l’esterno del bunker risulta essere semi sepolto da terra e detriti anche se il cemento non è deteriorato, il bunker telemetrico ha la facciata rovinata da innumerevoli graffiti.
Mercoledi’ 2 Settembre 2020, la Sezione ANPI di Chiavari ha ricordato i 100 anni della nascita del Partigiano “Marco” Sergio Kasman. Per l’occasione è stato stampato un opuscolo nel quale viene raccontata la storia di Kasman e della sua famiglia. All’interno si trovano foto e la copia della decorazione alla medaglia d’oro, con la motivazione della massima ricompensa al valor militare. Su gentile concessione dell’autore Giorgio Getto Viarengo ne riportiamo qui il testo e le immagini in formato digitale:
Sergioera nato a Genova il 2 settembre del 1920, con papà Giovanni e mamma Maria Scala abitavano in Via Palestro al numero 9. In una pubblicazione del 1984, Mario Bertelloni, tracciava una puntuale biografia e descriveva con grande precisione la cultura dell’uomo giusto e libero qual era Sergio. Giovanni Kasman italianizza il suo nome di battesimo, era nato a Niegin in Ucraina, dopo aver scelto la nostra nazione come sua futura residenza, in Torino la sua prima dimora. Nella città piemontese conosce Maria Scala che diventerà la compagna della sua vita. Dopo il matrimonio, celebrato sul finire del 1919, si trasferiscono in Genova, qui Giovanni avvia l’attività di sartoria in Via XX Settembre. Con la nascita di Sergio trasferisce la famiglia in un appartamento proprio sopra il laboratorio, qui il lavoro e la qualità dei suoi tagli lo affermano nella Genova della ricca borghesia, portandogli l’appellativo di “Forbice d’Oro”. Oltre l’abilità artigianale, Giovanni conferma una sua grande aspirazione: quella di cantante d’opera. La voce baritonale gli permette diversi ruoli e parti, le sue interpretazioni lo porteranno a esibirsi in diversi teatri: Alla Scala di Milano, San Carlo di Napoli, al l’Operà di Parigi. Queste esperienze non bastano a gratificare le aspettative, il suo desiderio e la creatività lo spingono a scrivere una propria opera, “Il figlio della statua”, che diventa un sogno da realizzare. Il lavoro, i progetti musicali e teatrali, il rinnovato impegno nella famiglia: nel 1920 nasce Sergio, nel 1923 Marcello, nel 1928 arriva Roberto. La casa diventa troppo stretta e il negozio non è adatto per crescere i ragazzi. Giovanni e Maria pensano ad un trasferimento nell’entroterra di Genova a Casella, dove spesso vanno in villeggiatura. Nel 1932 si decide per il trasloco in Chiavari, la prima abitazione è situata all’angolo tra corso Cristoforo Colombo e piazza Vittorio Leonardi, papà Giovanni rimane a Genova per lavorare nella sartoria. Tre anni dopo una nuova residenza, la famiglia si sposta in corso Buenos Aires al numero 10.
Con questo cambiamento, si apre un nuovo orizzonte per Giovanni, da tempo medita di trasferirsi in America e cercar fortuna come cantante lirico, questo sarà il suo assillo per il prossimo futuro. Con la nuova abitazione e i figli più grandi, inizia per Sergio il ginnasio al Delpino, Marcello e Roberto frequentano le elementari nelle vicine scuole comunali. Con le scuole superiori nascono nuove amicizie, Sergio conosce e frequenta i fratelli Ugolini, Giuseppe Rivarola, Ettore Balossi, Carlos Padilla, Giorgio Giorgi, Claudio Lena, Gino Beer e Salvatore Mayda. Il prossimo futuro è molto ben descritto nella biografia di Mario Bertelloni: “Il padre sogna il Metropolitan, Sergio l’amore, Marcello l’avventura”. Questi sogni e aspettative avranno un brusco scontro con la realtà, nell’estate del 1938 si parla con sempre maggiore attenzione del problema razziale, della necessità d’affrontare e risolvere la questione ebraica nell’Italia fascista. Il Giornale di Genova, il vecchio e glorioso Caffaro, apriva la campagna per affermare la superiorità della razza ariana, il progetto prevedeva il sistematico dileggio degli ebrei, in particolare una serie mirata d’articoli colpivano la comunità genovese, un’articolata campagna di luoghi comuni, di massime contro gli israeliti. Giovanni Kasman, con un cognome d’origine ebraica, è colpito da questa campagna, le leggi razziali varate nell’ottobre faranno crollare tutto. Giovanni è convocato in questura, qui gli interrogatori chiedono conferme sulle origini della sua famiglia. Questa situazione convince papà Kasman di portare a termine il suo sogno americano, di lasciare la sartoria ai figli e partire. Il progetto si perfeziona, il 15 febbraio del 1939 Giovanni affida al figlio Sergio tutti i suoi crediti, il 23 s’imbarca sul Rex, il suo prossimo indirizzo sarà al numero 246 sulla West 38th Street a New York. Con questa scelta difficile per tutta la famiglia inizia un fitto carteggio, non manca giorno che Giovanni non scriva da New York, forse la sua coscienza teme per la difficile situazione lasciata alla famiglia in Italia. Nelle sue lettere invia consigli e detta scadenze, in più occasioni spedisce dollari per concorrere economicamente alla gestione famigliare e alla sartoria. Nelle ore della drammatica dichiarazione di guerra Sergio Kasman è a Genova con Giuseppe Rivarola, sono chini sui libri a preparare l’abilitazione magistrale.
La mentalità avventurosa di Marcello lo porta a tentare l’espatrio clandestino, desidera raggiungere il padre in America, ma finisce in cella. Arriva l’autunno, il primo di guerra, Sergio lascia Chiavari alla volta di Torino, qui frequenterà la facoltà di Magistero, nella nuova città conosce giovani studenti e capisce che tanti di loro non condividono la guerra e il regime: le idee già ascoltate a Chiavari dai fratelli Ugolini non erano isolate. Il primo rientro in Chiavari è per andare a Pisa, si ferma in città e discute con mamma Maria delle lettere di papà, Roberto cresce, Marcello è sempre ingovernabile. In uno dei rientri in Chiavari fissa un appuntamento, si tratta d’incontrare una ragazza che abita in Piazza Roma, il suo nome è Laura Wronowski, la sua famiglia è decisamente avversa al fascismo: la madre è sorella della moglie di Giacomo Matteotti. Da quell’incontro nasce un amore, per lei Sergio scriverà versi di profonda dolcezza: “un’ora di vita, in un’ora tutta la vita”. Arriva una data che cambierà ulteriormente le difficili condizioni di casa Kasman, il 7 dicembre del 1941, i giapponesi attaccano gli americani a Pearl Harbour, l’Italia dichiara guerra agli USA, questo determinerà il blocco delle rimesse da New York. La chiamata alle armi raggiunge Sergio: si parte per Pinerolo, qui l’addestramento; seconda caserma a Canzo, nel comasco, il suo grado sergente allievo ufficiale. Arriva implacabile la data che cambierà il quadro di tutto il Paese e il destino di tanti italiani: l’8 settembre 1943. La prova per Sergio Kasman giunge durante gli scontri di Porta San Paolo a Roma, i tedeschi aprono il fuoco contro l’esercito italiano che difende la città, lo scontro è rabbioso, “appena la pressione tedesca diventa insostenibile, Kasman e gli artiglieri attuano una manovra di disimpegno con lievi perdite, un paio di feriti. Ma a questo punto occorre sul serio andarsene a casa”. Il sintetico virgolettato è ancora una volta tratto dal testo di Bertelloni. La cronaca degli scontri è alle spalle da cinque giorni quando riesce a rientrare a Chiavari, il calendario segnava martedì 14 settembre.
Al rientro in città si reca subito dalla madre, la ritrova col solo figlio Roberto, Marcello non è reperibile, solo alcune notizie dall’ambasciata dell’Uruguay. Per Sergio inizia il percorso difficile nella Resistenza, affianca e opera nell’Organizzazione Soccorso Cattolico agli Antifascisti Ricercati, questa organizzazione è diretta da due sacerdoti, don Andrea Guetti e don Aurelio Giussani. Sergio accompagna quanti non possono stare più in Italia e debbono trovare rifugio in Svizzera, si tratta di fare da guida nel percorso tra le montagne e portare al sicuro i soggetti ricercati, entra in clandestinità è il suo nome sarà Marco Macchi, talvolta Marco Guardi. Il suo lavoro e la serietà lo mettono subito in primo piano, la fiducia in lui cresce ogni giorno. Durante un’operazione in Svizzera incontra suo fratello Marcello, era entrato clandestinamente il 14 settembre del ’43, internato a Lucerna e trasferito nel campo di lavoro di Waldegg. Con quell’incontro di metà gennaio 1944 Marcello esce di scena, di lui solo supposizioni o notizie frammentarie: è con la Resistenza francese, risulta rientrato in Italia il 27 luglio del 1944; solo frammenti, nessuna notizia certa. A marzo del 1944 Sergio incontra Ferruccio Parri e Leo Valiani, sono in Svizzera per trattare con gli Alleati e richiedere un impegno maggiore e aiuti per il movimento di Giustizia e Libertà. Il rientro in Italia è percorso insieme scendendo da Luino, come scriverà Ferruccio Parri nell’opera “Più duri del carcere”: “capii che quel ragazzo avrebbe dato tutto se stesso alla causa che sceglieva”. Da quell’incontro un nuovo impegno, il lavoro in GL affianco di Parri, una grande responsabilità per Sergio Kasman “Marco”, ora capo di Stato Maggiore del comando piazza di Milano nelle squadre d’azione di Giustizia e Libertà. Il suo alloggio è in una soffitta di piazza Baracca, qui vive con un altro clandestino di GL Bepi Baltoli. Durante i colloqui col compagno d’abitazione non riesce a contenere l’angoscia per il continuo pensiero ad un amico detenuto, il suo primo amico di questo nuovo impegno ideale: Nino Baccigaluppi, recluso a San Vittore.
Questo diventerà il chiodo fisso, ne parla con Parri e riferisce il piano di liberazione: mi travesto da tedesco e porto fuori Nino. Non si tratta di un’idea dettata dall’impeto, Sergio vuole davvero liberare Baccigaluppi, Arialdo Banfi detto “Momi” e un certo Patterson detto il Canadese. È domenica 9 luglio 1944, “Marco” ripassa con i suoi i punti determinati dell’azione, non si deve sbagliare nulla e non sbaglieranno, il commando di Giustizia e Libertà potrà annotare un preciso “Missione Compiuta”. I successi di Sergio Kasman “Marco”, lo pongono tra i più assidui ricercati e la sua vita in Milano diventa ogni giorno più difficile. Nei fitti contatti con la Resistenza e nello scambio d’informazioni è raggiunto da una nota che proviene dalla VI Zona Operativa, da Chiavari giunge segnalazione dell’arresto del fratello Roberto. Sergio entra immediatamente in azione, il progetto è una replica di quanto messo in atto a San Vittore, nella notte si trasferisce a Genova, qui il contatto con un ferroviere che li accompagna al garage dove è pronta una macchina e documenti falsi per l’azione, anche in questa occasione tutto riesce con precisione, Roberto è portato via, al sicuro a Genova. La Madre Maria è sfollata, verrà prontamente informata e consigliata di non rientrare a Chiavari, si sposterà a Zoagli presso la frazione Semorile, mentre Roberto sarà affidato ad un gruppo di Giellini ad Isola del Cantone. Con un abbraccio saluta il fratello, “Marco” rientra a Milano con un treno in terza classe. Sono giorni di grande difficoltà, la polizia politica e la Brigata Nera Ettore Muti non lasciano scampo agli uomini della Resistenza, gli attivisti di GL sono costretti a cambiare spesso abitazione, inoltre, Ettore Piantoni, uomo di GL, è stato catturato e dopo un durissimo interrogatorio negli uffici della Muti, ha deciso di collaborare coi repubblichini. Sfinito dall’interrogatorio sarà lui a portare “Marco” verso il drammatico incontro di piazza Lavater. L’agguato avviene nei pressi dell’edicola dei giornali, scrive Mario Bertelloni: “Gli occhi di Sergio si illuminano, va incontro all’uomo, felice come una Pasqua; mentre si avvicina dà un’occhiata in giro, tutto sembra tranquillo.
I due si salutano calorosamente, la stretta di mano è vigorosa. In un batter d’occhio la trappola scatta, Kasman sente qualcosa contro le reni, sono le pistole di Porcelli e Cagnoni, sente l’’urlo di Porcelli “fermo, mani in alto!”, un urlo in cui il tono di comando è sopraffatto dalla trepidazione. Il sorriso di Marco si spegne”. Il racconto è ben documentato e ci porta verso la tragedia definitiva. Lo spingono verso un’automobile, quando mancano pochi passi tenta l’impossibile:” affida tutto a uno strattone e allo scatto”, Alceste Porcelli apre il fuoco, Sergio Kasman cade sul selciato, ancora in vita viene trasportato nel vicino posto di guardia medica. Qui il racconto può trasferirsi al linguaggio freddo e burocratico del registro dello Stato Civile di Chiavari: “rapporto numero 17 del 9/12/1944, Kasman Sergio di Giovanni e Scala Maria, di anni 24. Io Manara Antonio, ufficiale dello stato civile del Comune di Milano, do atto che: Il giorno nove di dicembre dell’anno millenovecentoquarantaquattro, alla Guardia Medica di Piazza Venezia è morto Kasman Sergio, dell’età di anni ventiquattro, di razza ariana, studente residente in Chiavari”. Il calore della passione ritornerà il 13 maggio del 1945 a Roma, è la voce di Ferruccio Parri, siamo all’Eliseo, che ricorda” il buon Marco, il fido compagno…una delle tempre più generose”. La vita riprende nelle città liberate, Roberto e Maria Scala ritornano nella loro abitazione di corso Buenos Aires, qui incontreranno il vecchio amico Carlos Padilla, dalle sue parole una notizia inaspettata: papà Giovanni è morto a New York. Il cammino del dolore continua, lunedì 22 ottobre 1945 la salma di Sergio Kasman è traslata e trasferita al campo di Musocco, a salutarlo le famiglie e il presidente del consiglio Ferruccio Parri, il prefetto di Milano Riccardo Lombardi. Nel primo anniversario della morte è la sua Chiavari a ricordarlo, nel salone dell’Hotel Giardini la voce di Ettore Lanzarotto commemora la “gloriosa morte del concittadino Sergio Kasman, poeta e patriota”.
Con il decreto del 24 aprile 1946, Sergio è insignito della medaglia d’oro al valor militare: “Comandante di formazione partigiana sui monti Lombardi, poi capo di Stato maggiore del Comando Piazza di Milano, per quindici mesi infaticabile nel colpire il nemico, ardente trascinatore nella dura lotta, guidò personalmente audaci colpi di mano che portavano alla liberazione di prigionieri politici incarcerati. Arrestato due volte, due volte sfuggiva alla morte e riprendeva con incomparabile ardimento il suo precedente incarico, sdegnando di accettare l’offerta di missioni in zone meno rischiose. Catturato una terza volta incontrava morte gloriosa consacrando il supremo sacrificio al suo sogno di giustizia e libertà. Milano, 9 settembre 1943 – 9 dicembre 1944”. I compagni di Milano lo ricordano e scrivono un’epigrafe a memoria del sacrificio in piazza Lavater, Ferruccio Parri sarà in Chiavari per l’intitolazione della lapide di Corso Colombo, il 25 aprile del 1977 è l’ammiraglio Luigi Gatti a tagliare il nastro tricolore, la nuova viabilità lungo il fiume Entella prede il nome di Viale Kasman, in occasione del 25 aprile dell’85 il bronzeo busto plasmato da Pietro Solari con l’epigrafe scritta da Laura Wronowski. Una storia complessa e piena di dolore, di uomini che seppero combattere dalla parte giusta e riconsegnare l’Italia alla libertà, di Sergio Kasman possiamo ribadire due sole parole: era uomo giusto e libero. Giorgio Getto Viarengo