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Ecco il libro che parla della mappa

Dopo 7 mesi di notti insonni, perché è stato un lavoro sviluppato alla sera e nei ritagli di tempo, finalmente il libro che parla della nostra mappa digitale:

Storie, racconti e una mappa della Resistenza –

Prontuario della memoria

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Questa pubblicazione avviene dopo tre anni dalla creazione della mappa digitale. 

Oggi i luoghi geolocalizzati sono più di 250, non solo nel Tigullio, e non avrei mai pensato di suscitare tanto interesse arrivando ad ottenere oltre 60 mila visualizzazioni.

Interesse che ha visto coinvolte molte persone, con le quali condividiamo le informazioni, sia per itinerari turistico culturali, ma anche per il recupero di percorsi e strutture utilizzate durante la lotta di Liberazione dal nazi-fascismo.

Parallelamente alla mappa, qualche mese più tardi, ho aperto il sito: https://mapparesistenzatigullio.com/ 

All’interno del quale sono stati pubblicati oltre 40 articoli di approfondimento.

Il sito ha già 19 mila visualizzazioni e 12 mila singoli visitatori.

In occasione del centenario della nascita del Comandante partigiano Aldo Gastaldi “Bisagno”, le sezioni A.N.P.I. del Tigullio e del Golfo Paradiso hanno ristampato una vecchia mappa cartacea, apponendo sulla stessa il QR code che richiama appunto quella digitale, questi ultimi sono stati posizionati, con adesivi, in prossimità dei cippi più significativi.

“Mantenere la memoria del passato quale monito per il futuro” è il motto che fin dall’inizio ha accompagnato questa iniziativa che penso sia la perfetta sintesi dello spirito che anima tutte le persone che si sono avvicinate ed hanno contribuito al progetto.

Qui troverete una raccolta dei brevi racconti pubblicati sul sito ed alcuni inediti, sarà un percorso a metà tra il fisico, le pagine del libro, e il virtuale, con i QR code che permettono l’approfondimento attraverso i contenuti digitali della mappa.

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Raimondo Saverino, il primo partigiano caduto della “Cichero”

Nato a Licata (Agrigento) nel 1923, fucilato a Borzonasca (Genova) il 21 maggio 1944.

Chiamato alle armi durante la Seconda guerra mondiale, il ragazzo combatté col 241° Reggimento Fanteria “Imperia”.

Ferito in Grecia nel giugno del 1943, Saverino fu rimpatriato e, quando si fu ristabilito, assegnato ad una compagnia del reggimento, di stanza alla caserma “Piave” di Genova. All’annuncio dell’armistizio, si portò sulle alture di Genova.

Raggiunti i primi partigiani della brigata «Cichero», che si andava costituendo al comando di Giovanni Battista Canepa (“Marzo”), e che sarebbe in seguito diventata la III Divisione Garibaldi, il ragazzo, assunto il nome di battaglia di «Severino», si distinse subito per il suo coraggio.

Catturato una prima volta dai tedeschi durante un rastrellamento, riuscì a fuggire e a tornare alla sua formazione. Il 21 maggio del ’44 “Severino” cadde di nuovo nelle mani dei nazisti, che lo catturarono sui monti della Rondanara (Valle dell’Aveto). Torturato e invano interrogato perché desse ai tedeschi informazioni sulla Resistenza ligure, fu caricato su un camion e portato sulla piazza principale di Borzonasca.
La sua fu una tragica e violenta morte, per mano delle brigate nere guidate dal vessatore Vito Spiotta.


Prima della fucilazione fu preso a sputi e a calci, legato ad una sedia presa dalla chiesa in piazza a Borzonasca (il monumento nell’immagine lo ricorda).
Cominciarono a sparargli dai piedi e sempre più su per dargli il maggior dolore, fino a quando la sedia non si rovesciò e lui morì col viso riverso nel suo stesso sangue.
Il cadavere rimase tre giorni sulla piazza a scopo intimidatorio.
Questo fu l’evento che diede il via alle operazioni di Resistenza armata della Brigata Cichero al grido di “Sutt’a chi tucca“, che poi divenne Divisione sotto la guida di Aldo Gastaldi “Bisagno”.

In sua memoria, i partigiani liguri crearono la «Volante Severino», che avrebbe valorosamente combattuto sino alla liberazione di Genova.

Oggi a Borzonasca la piazza è stata dedicata a Raimondo Saverino ed un monumento lo ricorda sulla facciata del Municipio (vedi foto sinistra in copertina).

Anche a Licata, suo paese natale, un monumento a lui dedicato ricorda quel tragico epilogo (vedi foto destra in copertina).

Clicca qui per visualizzare la Mappa digitale della Resistenza nel Tigullio.

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I Bombardamenti su Chiavari

Nei primi tempi del conflitto le incursioni aeree sono rare e di lieve entità, ma dall’autunno del 1942 gli anglo-americani intensificano i bombardamenti strategici sulle città Italiane, non solo per distruggere impianti industriali, nodi ferroviari, attrezzature portuali e altri obbiettivi militari, ma anche per indebolire il morale del cosiddetto fronte interno ed esercitare una pressione di tipo terroristico sulla popolazione.

Questa deve essere resa consapevole del fatto che di fronte allo strapotere del potenziale economico e militare Alleato la sconfitta è inevitabile, mentre la conoscenza dei pericoli cui sono esposti i loro cari nelle città deve fiaccare lo spirito combattivo dei soldati al fronte.

Guerra e città, secondo le indicazioni del Moral Bombing britannico, divengono così concetti inseparabili, legati tra loro indissolubilmente dalla necessità di piegare armi e governi nemici deprimendo lo spirito dei cittadini inermi.

E’ indispensabile, afferma la direttiva del Bomber Command britannico del 9 Luglio 1941, abbattere in generale il morale della popolazione civile, soprattutto quello degli operai dell’industria. «Grazie alle vittime del massacro si purifica il morale di chi resta, fino alla redenzione». Non è un caso inoltre che gli attacchi più distruttivi sulle città italiane siano portati nel periodo compreso tra il 25 Luglio e l’8 Settembre 1943, quando, caduti Mussolini ed il regime fascista, si svolgono febbrili trattative segrete tra emissari del nuovo governo italiano ed Alleati, per giungere ad una resa il meno possibile onerosa. I bombardamenti terroristici hanno così anche lo scopo di spingere il governo Badoglio ad una rapida decisione, sulla pelle della popolazione civile.

I bombardieri si accaniscono su Torino, Milano, Genova, Napoli, Palermo e su tutte le città strategicamente importanti, provocando immani distruzioni e un alto numero di morti e feriti, costringendo milioni di persone a sfollare, a lasciare cioè le loro abitazioni in cerca di un nuovo alloggio nelle campagne e nei paesi meno esposti alla minaccia delle bombe.

Qui di seguito pubblichiamo il testo dei report dei bombardamenti Alleati su Chiavari tra i mesi di maggio e luglio 1944:

12/05/44 Twelfth AFAround 730 B-17’s and B-24’s (largestHBforceusedbyFifteenth AFonanydaytothistime)attack ………….. marshalling yard and railroad bridge at Chiavari ….
11/07/44 Twelfth AFWeather again hampers operations. MBsattackM/YatAlessandria,hit approach to railroad bridge at Chiavari, and score near misses on other bridges.

12/07/1944 441 486 487 488 489 P283356 (ALTN) RRB CHIAVARI & ZOAGLI

12/07/1944 442 486 487 488 489 RRB CHIAVARI

15/07/44 Twelfth AF………….. raids which struck bridges at Chiavari ………….
HQ 321st BG War Diary: Four more missions in the Mallory Plan totaled 87 sorties this date. ………………. for the afternoon mission so they turned around and smothered the Chiavari Rail Bridge—alternate target.
321st BG Mission No 441 Date: 15 Jul44 No A/C completing mission: 25 Squadrons: 445- 7 446- 6 447- 6 448- 6Target: ……………….. bombed alt. Chiavari Rd BridgeTime OFF: 1711 T.O.T.: 1900 Time Down:2010

445thBSMissionSummary(OpsOrder 441/mission441)Group Mission # 441: Squadron Mission: 309TARGET: ………………… bombed alt. ChiavariRdBridge Inthesecondmission,7planeswere sent from the squadron on the mission sent to attack the same target this time with a bombing accuracy of 58-%.

447th BS Mission Summary (Ops Order 441/mission 441)Group Mission # 441: Six of our ships participated in a raid on the Chiavari RR Bridge,Good concentration of bombs on west end and west approach. One Cluster over and cutting road north of target and west of road bridge. Bombing accuracy 100%; Mission efficiency – 100 %.

448th BS Mission Summary (Ops Order 441/mission 441)Group Mission # 441: Mission 292 (441): ………………… 12 planes dropped 48 x 1000 bombs on alternate target of Chiavari RR/B at 19:00 hours from 11,000 feet. no flak at alternate, chaffused.


17 luglio 1944, ore 6,40 – non si contano parecchi danni, solo una bomba inesplosa si conficca ad una profondità di due metri sul terreno antistante l’entrata della Caserma di Caperana; l’ordigno verrà poi fatto brillare in una cava di ardesia di Cicagna.

Clicca qui per visualizzare la Mappa digitale della Resistenza nel Tigullio.

Fonte:http://www.comune.lavagna.ge.it/sites/default/files/053_VRB%20Cogorno%20GE.pdf

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Chiavari, quella presenza inquietante sulla collina delle Grazie

Come un “grande fratello” che dall’alto controlla ed intimorisce chi sta ai suoi piedi, a Chiavari sulla collina delle Grazie in mezzo alla vegetazione si trovano i resti di un osservatorio affacciato sul mare e sulla città.

Per comprendere appieno cosa questa minaccia rappresentasse per Chiavari e per tutto il golfo del Tigullio è necessario fare un passo indietro di 75 anni.

E’ il 25 aprile 1945, i Partigiani e gli alleati trovano una tenace resistenza prodotta dal fuoco delle batterie tedesche che incessantemente colpiscono dalla zona del Curlo e dalle Grazie.

Sulla sponda chiavarese dell’Entella si apre un fronte di fuoco, sono le postazioni di retroguardia della colonna Pasquali che non permettono alla Brigata Garibaldina “Zelasco” di entrare a Chiavari passando dal ponte, oggi conosciuto come ponte della Libertà.
Nel frattempo sul lato lavagnese dell’Entella, si allineano i carri armati alleati che neutralizzano il fuoco di sbarramento nazi-fascista, questo però li espone al tiro dei tedeschi che cannoneggiano dalle Grazie. La colonna di carri è talmente numerosa che giunge oltre l’altro capo di Lavagna.

Il Comando alleato decide cosi’ di prendere possesso della città bombardandola via mare, ma questa scelta trova la forte opposizione del Comandante Eraldo Fico “Virgola” della Brigata “Coduri” (che da li’ a poco sarebbe diventata Divisione).

“Virgola” riesce a convincere gli alti comandi alleati ad attendere ancora qualche ora, offrendosi di impegnare uomini della Resistenza per liberare una volta per tutte dai nazi-fascisti la città di Chiavari.

Questa scelta comportò vittime tra le fila partigiane ma salvò la popolazione civile dalla distruzione e dalla morte.

Fra le vittime partigiane cadute in quei giorni di Aprile del 1945 si ricordano Ottorino Bersini “Basea” (caduto a Chiavari), Rugi Marino detto Ruggi Mario “Otto” , Antonio Minucci “Scorpione” e Fè Luigi “Furio” (caduti a Lavagna), per conoscere le loro storie e visualizzare nella Mappa digitale la posizione delle lapidi, che ne ricordano il luogo di caduta, clicca sopra i loro nomi.

Per dettagliare meglio quei momenti si riporta qui di seguito un interessante estratto Dal libro: “Cosa importa se si muore” di Mario Bertelloni e Federico Canale (Res Editrice, Milano, 1992):

Mercoledì 25 aprile [1945]. (,,,) La signora Westermann, titolare dell’albergo in via Romana, dove tra l’altro i tedeschi sono di casa, si fa portavoce di una mediazione con il comandante della batteria. Questi, un austriaco, si impegna a non sparare purché non attaccato dai Gap o dai partigiani. Tutto sembra procedere nel migliore dei modi quando, verso le ore 15, il comandante della batteria del Curlo, tale capitano Campanini, ordina di aprire il fuoco contro le truppe alleate dislocate sul lungomare di Cavi. (…).

Gli alleati centrano un bunker sotto il santuario delle Grazie ma è come aver pescato un jolly perché non riescono a comprendere da dove arrivino le cannonate.

Giovedì 26 aprile. (…) Prima della ritirata, pionieri tedeschi minano le postazioni delle Grazie; sotto il Santuario c’è un’autentica santabarbara. Jan Zacher e Jan Wegner, [polacchi] dell’artiglieria germanica, evitano la distruzione della chiesetta; Wegner taglia con un colpo d’ascia il filo della carica prima che salti tutto in aria e con il commilitone corre a nascondersi. (…) Nove anni più tardi (…) quell’ufficiale tornerà a Chiavari per ringraziare del trattamento riservatogli al momento della cattura (…)

Ecco alcune testimonianze anonime di quei ultimi concitati momenti prima della Liberazione:

“La batteria delle Grazie venne approntata per essere distrutta ed abbandonata la mattina del 25 aprile. L’improvviso apparire delle avanguardie americane a Cavi indusse i tedeschi a rioccupare la posizione ed intervenire bombardando l’Aurelia. L’azione rallentò la progressione degli americani permettendo ad un grosso gruppo (la famosa “colonna Pasquali”) di ritirarsi in direzione di Genova lasciando lo squadrone esplorante divisionale (della divisione Monterosa) a condurre un’azione ritardatrice sulla riva dell’Entella. Con l’approssimarsi del combattimento, la batteria non fu più in grado di supportare i bersaglieri battendo bersagli lungo la foce del fiume, cioè presentanti una notevole depressione. Nel pomeriggio i tedeschi abbandonarono definitivamente la posizione rimuovendo i congegni di sparo dei due pezzi sotto l’azione della controbatteria americana (598° FA Bn). I danni ancor oggi visibili sono stati causati dal tiro diretto degli Tank-Sherman e gli M-10 (Tank Destroyers)  che appoggiarono l’assalto del 2/473° lo stesso giorno”.

Ciò che tenne sotto scacco la lotta di Liberazione fino al 25 Aprile 1945 fu il cannone binato delle Grazie, posto qualche metro sopra il bunker osservatorio.

Era lo stesso che fu installato sugli incrociatori della “Classe Capitani Romani” (2 x 135/45 mm) Mod.OTO-1937 . Quest’arma era considerata la migliore che sia stata costruita nella Seconda guerra mondiale. Aveva una gittata di 20.000 mt. ed era perciò in grado di colpire qualsiasi bersaglio presente nel golfo Tigullio, da Portofino a Sestri Levante.

Mod.OTO-1937

Oltre alla posizione strategica del luogo, i tedeschi scelgono quella postazione del Golfo del Tigullio perchè non trascurarono neppure l’ipotesi di uno sbarco Alleato sulle spiagge di Chiavari, Lavagna e Cavi di Lavagna, i cui alti fondali  ben si prestavano ad una rapida conquista della Via Aurelia e della Ferrovia che transitano, tuttora, a pochi metri dal bagnasciuga. Numerose sono le “tracce” delle difese costiere in cemento armato per contrastare l’eventuale sbarco degli Alleati, come il muraglione anti-sbarco, visibile ancora oggi lungo tutto il litorale.

Proprio per questo timore, lungo la Riviera orientale la Wehrmacht fece costruire numerose tipologie di così dette “casematte” . Le più note avevano forma cubica o circolare con una feritoia rivolta verso al mare da cui spuntava un cannone da 50 mm pronto a fermare gli Alleati sulle nostre spiagge. Molte altre casematte, che affiorano tuttora tra le sterpaglie lungo le spiagge, furono per lo più costruite con tre o quattro feritoie ed erano armate con nidi di mitragliatrici di vario calibro. Le casematte più comuni erano note con il nome di tobruk e s’ispiravano alle postazioni italiane installate durante la Campagna del Nordafrica. L’efficacia di queste piccole fortificazioni convinse i tedeschi ad adottarle anche per la difesa delle coste liguri costruendole in cemento armato e incassandole a terra con piccole “riservette” per le munizioni. Spesso i tobruk venivano costruiti anche per la difesa delle batterie di maggiori dimensioni, mentre altre particolari costruzioni in cemento armato, contenevano una camera di combattimento circolare, dov’erano presenti almeno quattro feritoie armate di mitragliatrici che sbarravano l’accesso alle principali vie di comunicazione litoranee e funzionavano da posti di blocco costieri.

Le maestranze Tedesche, in collaborazione con specialisti dell’Ansaldo, della Oto Melara e dell’Arsenale di La Spezia, allestirono nuove batterie costiere utilizzando l’abbondante numero di pezzi campali catturati al Regio Esercito dopo l’8 settembre 1943.

La postazione del “Cannone delle Grazie” era rifornita da terra (S.S. Aurelia) e via mare tramite sentieri più o meno nascosti, anche per mezzo di un elevatore ubicato presso una galleria a livello del bagnasciuga. Sono inoltre visibili altri bunker per nidi di mitragliatrici e supporti per apparati di telecomunicazioni. L’osservatorio bunker era munito di telemetro per il calcolo della distanza degli obiettivi.

Qui di seguito alcune immagini recenti del Bunker delle Grazie, dove oltre all’ingresso è ancora ben conservata la piastra del basamento con i perni in acciaio sopra i quali venne posizionato e fissato il telemetro:

La scelta dell’ubicazione del sito fu senza dubbio oculata, poiché i Nazisti tennero conto della vicinanza del Santuario che garantiva l’uso delle varie utenze: luce, gas, acqua e linee telefoniche, oltre alle ben note vie di fuga nelle varie direzioni.

La stato di conservazione di queste costruzioni è di abbandono, l’esterno del bunker risulta essere semi sepolto da terra e detriti anche se il cemento non è deteriorato, il bunker telemetrico ha la facciata rovinata da innumerevoli graffiti.

Clicca qui per visualizzare il luogo sulla Mappa della Resistenza nel Tigullio

Link per alcune fonti ed approfondimenti:

http://mollaii.altervista.org/Sito_Bunker/Chiavari/Bunker3.htm

Foto copertina Di MVSN – http://www.worldwarforum.net/forum/viewtopic.php?f=83&t=10997, Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4020524

Foto Mod.OTO-1937 http://www.culturanavale.it/documentazione.php?id=349

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Chi erano i Repubblichini ai quali oggi alcuni dedicano omaggi e corone?

La Storia d’Italia del ventennio fascista racconta tantissime storie di vessazioni e di efferate violenze da parte di atroci assassini, ma chi erano questi delinquenti che pur di difendere la dittatura del duce hanno massacrato ed ucciso migliaia di civili e militari Italiani? Ma soprattutto perché oggi, per un bieco gioco politico, alcuni tentano di avviare la Storia verso il baratro del revisionismo?

Come ho provato a fare con gli articoli fin qui pubblicati, nelle prossime righe cerco di dettagliare la figura di un personaggio, fra i tanti, che nel Tigullio si è contraddistinto per ferocia e crudeltà, incendiario di paesi, fucilatore di carabinieri e civili.

Si tratta del Maggiore Girolamo Cadelo, comandante del Gruppo Esplorante della divisione alpina “Monterosa” nato il 04/06/1906 a Trapani, morto in un agguato Partigiano della Brigata “Berto” dopo il Passo della Forcella il 27 Settembre 1944.

Cadelo era nato in una famiglia dell’aristocrazia siciliana (i baroni dell’Isola di Salina). Fascista integrale e fanatico, aveva partecipato alla campagna sul fronte russo in qualità di ufficiale dei Lancieri di Novara. Dopo l’8 settembre 1943, aveva aderito alla neo costituita Repubblica Sociale e fu inserito nella divisione alpina “Monterosa”, una della quattro divisioni dell’esercito repubblicano addestrate in Germania. Alla fine di Luglio 1944, la Monterosa venne schierata lungo la riviera del levante ligure, da Nervi a Bobbio sul fronte orientale e da Levanto a Borgotaro(PR) sul fronte occidentale, per fronteggiare un paventato sbarco anglo-americano e contrastare le incursioni Partigiane delle provincie di Genova e Parma.

Il comando della “Monterosa” ebbe sede a Terrarossa (Carasco) e trattenne come riserva divisionale il gruppo esplorante con sede a Borzonasca, comandato appunto da Cadelo, e il battaglione pionieri del Maggiore Agamennone, con sede a Carasco.

L’ufficiale Repubblichino Cadelo iniziò ad esercitare le sue funzioni mostrando particolare durezza nei confronti della popolazione civile e dei suoi subordinati. L’accanimento e la spietatezza con le quali si impegnò nella repressione del fenomeno resistenziale, seminarono nelle valli Aveto e Trebbia terrore e sgomento.

Domenica 6 agosto a Caregli (Borzonasca), nel pieno svolgimento della festa patronale, Cadelo irruppe nella piccola frazione. Dopo aver chiesto i documenti d’identità a tutti i presenti, individuò tre giovani renitenti alla leva, li apostrofò a dure parole accusandoli di essere i responsabili dell’aggressione di un fascista locale, quindi, dopo sommari accertamenti, li fece fucilare. Da quel giorno la spirale di violenza subì una tragica accelerazione.

Si “guadagnò” il soprannome di “barone nero” o “caramella” (per il monocolo che usava portare sempre con se).

Alla fine dell’Agosto del 1944 quello in Val d’Aveto fu un mese di sangue (leggi qui l’articolo dedicato), un’operazione di rastrellamento interessò le province di Piacenza, Genova, Alessandria, Pavia e Parma. Alla divisione Monterosa venne assegnato il compito di rastrellare le valli Trebbia ed Aveto per poi congiungersi a Bobbio con gli altri reparti provenienti dall’Oltrepò.

Il 27 agosto i partigiani attaccarono una colonna di alpini ad Allegrezze in Val d’Aveto, causando morti e feriti. In ausilio al reparto attaccato venne inviato uno squadrone al comando del maggiore Cadelo che, appena giunto in loco, fece fucilare per rappresaglia Antonio Brizzolara, nativo di Allegrezze (vedi qui la geolocalizzazione del luogo e della lapide). Fu ordinato quindi un pattugliamento concentrato della zona.

Il 29 Agosto presso il ponte di Boschi furono trucidati due ragazzi che transitavano sul greto del fiume Aveto: Ghirardelli Luigi e Pagliughi Mario, quest’ultimo finito con il calcio del fucile, il corpo venne gettato in una scarpata e coperto di pietre.

Quello stesso giorno, i soldati della Monterosa incendiarono la canonica di Brignole nel comune di Rezzoaglio.

Il maggiore Cadelo, accusando la comunità locale di connivenza con i partigiani e infrangendo la parola d’onore con la popolazione impegnata in proposito dal tenente Tedesco dell S.S. a Lui in sott’ordine, il mattino del 29 Agosto 1944, mentre il Parroco Don Primo Moglia celebrava la Messa per la Festa della Madonna della Guardia presente tutti i suoi Parrocchiani, faceva circondare Allegrezze e appiccava il fuoco a tutte le abitazioni della frazione impedendo ai parrocchiani dalle altre frazioni di accorrere in aiuto per spegnere l’incendio.

Due giorni dopo assieme al Parroco Don Primo Moglia, al becchino del paese, ed al figlio Sig. Costantino Zaraboldi, per iniziativa del Prof.Dott. Vittorio Podestà, si recarono in località “La Cava” per raccogliere il cadavere del Partigiano Berto (di anni 19) che per ordine del su menzionato Maggiore Cadelo era stato lasciato sulla strada con minaccia per chi lo avesse toccato, e gli diedero onorata sepoltura, la cassa fu fabbricata gratuitamente dallo stesso Costantino Zaraboldi. Un mese dopo, circa, il Zaraboldi e suo padre, furono arrestati assieme al Parroco di S. Stefano d’Aveto ed al Parroco di Pievetta, sotto l’accusa di collaborazione con i Partigiani. Non vennero fucilati assieme ad altri otto disgraziati del Luogo, solo perché nel frattempo il Cadelo (che aveva dato l’ordine di fucilazione) venne ucciso in imboscata dai Partigiani.

Il 2 Settembre a Santo Stefano d’Aveto l’ufficiale repubblichino Cadelo condannò alla fucilazione il Carabiniere Albino Badinelli, di anni 24 nato ad Allegrezze (a Badinelli è stata recentemente intitolata la caserma dei Carabinieri della Stazione di Santo Stefano d’Aveto, clicca qui per vedere quei luoghi sulla mappa).

Il giorno 7 Settembre altri due civili furono passati per le armi a Rezzoaglio. Dopo la conclusione del rastrellamento il Gruppo Esplorante restò di presidio tra Rezzoaglio, Santo Stefano e Borgonovo. Cadelo insediò dunque il suo comando presso l’albergo Americano di Rezzoaglio ed iniziò a maturare la personale convinzione che la popolazione dell’alta Val d’Aveto, in particolare la comunità di Santo Stefano, fiancheggiasse i partigiani. Fece così arrestare il parroco del paese Don Casimiro Todeschini ed altri 9 residenti, tra uomini e donne, imprigionandoli a Rezzoaglio. Decise inoltre che Santo Stefano avrebbe subito la stessa sorte di Allegrezze; in questo caso però alcuni ufficiali del suo reparto espressero la loro contrarietà.

Il comando della divisione partigiana “Cichero” venne a conoscenza del pericolo che correva il paese. Non si ha la certezza di chi informò i patrioti anche se, recentemente, il partigiano Costante Lunetti “Caronte”,  intervistato per un documentario dedicato al comandante “Bisagno”, ha raccontato che tra gli ufficiali della Monterosa ve ne era uno che informava in anticipo i partigiani su tutte le operazioni della divisione. In ogni caso il comando della “Cichero” stabilì di porre fine al terrore seminato da Cadelo con l’obiettivo di  un’imboscata pianificata per il 27 settembre. L’organizzazione dell’agguato fu rocambolesca. Secondo la cronaca di fonte resistenziale e le testimonianze raccolte da Don Michele Tosi, quel giorno tre patrioti della brigata “Berto” fermarono, presso Cabanne d’Aveto, due militi motociclisti della Guardia Nazionale Repubblicana (Palladini Edmondo e De Luca Giuseppe): due partigiani indossarono le divise tolte ai militi, inforcarono le motociclette e recarono al maggiore Cadelo un falso messaggio che lo convocava presso il comando divisionale di Terrarossa. I “militi” rimontarono poi sulle moto e percorsero la strada a ritroso sino all’altezza del Rio Bottazzo dove abbandonarono i mezzi. Cadelo partì da Rezzoaglio con la sua automobile e la scorta. In località Molini incontrò una pattuglia di alpini che gli comunicarono di aver ritrovato le due moto abbandonate. Egli, intuendo il pericolo, fece ritorno a Rezzoaglio.

Convocò l’arciprete Don Luigi Pagliughi e gli ingiunse di ritrovare i due militi scomparsi, altrimenti avrebbe fatto fucilare i dieci ostaggi arrestati a Santo Stefano, compreso Don Todeschini. Successivamente ripartì per Terrarossa, andando incontro al suo destino in poco oltre il Passo della Forcella.

Tre partigiani si erano appostati nel bosco in prossimità di una curva in località Brizzolara. All’apparire dell’auto del Maggiore, il partigiano “Macario” sparò una raffica di mitragliatore che colpi l’ufficiale seduto accanto all’autista. Cadelo fu trasportato precipitosamente a Chiavari presso l’ospedale della Croce Rossa, dove giunse cadavere.

Da fonti neofasciste i resti mortali del maggiore Cadelo sono stati tumulati nella Cripta della R.S.I. nel cimitero di Genova Staglieno. Precedentemente si trovavano nel cimitero di Chiavari, dove erano stati tumulati immediatamente dopo la morte. In quella cripta del capoluogo dove vergognosamente alcuni esponenti della politica genovese, insieme a gruppi dell’estrema destra neofascista, ogni anno si riuniscono per depositare fiori e corone.

Altrettanto vergognosa e grave è la celebrazione ufficiale che alcune amministrazioni comunali operano ogni 4 novembre, in memoria di fucilatori di civili e militari come appunto quella ai danni del giovane Albino Badinelli, che da Carabiniere eroe sacrificò la propria vita per salvare Santo Stefano d’Aveto dalle fiamme e dalla ferocia assassina degli ufficiali della Repubblica Sociale di Salò.

Clicca qui per visualizzare la Mappa digitale della Resistenza nel Tigullio.

(Fonti di questo articolo sono alcuni documenti storici gentilmente concessi da Giorgio “Getto” Viarengo, testimonianze dirette trascritte sui libri di Storia locale e citati anche all’interno della mappa digitale, cosi’ come alcuni passaggi dell’articolo tratto dal n° 36 del 8/11/2018 del settimanale “La Trebbia”)

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RSI e i massacri di civili, qui la storia di un giorno maledetto in Val Graveglia

In foto gli imputati fascisti alla sbarra nel Tribunale di Chiavari il 16 Agosto 1945 (Vito Spiotta primo a sinistra col pizzo, Pino Righi, Enrico Podestà, condannati poi a morte).

Racconti tratti da il Secolo XIX del 8 febbraio 2020, frutto di testimonianze inedite che Guido Lombardi (regista e scrittore) ha raccolto da un’abitante della Val Graveglia testimone di pestaggi da parte delle camice nere fasciste contro inermi civili:

“Mi chiamo Argentina proprio come il Paese sudamericano. Forse i miei vecchi mi hanno dato il nome di un loro sogno mai avverato, cercare fortuna in Argentina. Sono vissuta qui nella valle, sempre in mezzo ai minatori, ne ho sposato anche uno….omissis….Tante cose brutte della gioventù le ho scordate , invece quel giorno maledetto non lo dimenticherò mai, ce l’ho negli occhi come se fosse adesso.

Voglio strapparmi dal cuore una storia tremenda. Era il 1944, avevo vent’anni. Un pomeriggio un camion militare sbuca dalla curva e si ferma a pochi metri da casa nostra a Piandifieno. Dalla cabina di guida scende un uomo dall’aria altezzosa, un aspetto elegante, indossa un cappotto marrone e un cappello beige. Dal cassone saltano a terra sei giovani in camicia nera, hanno un atteggiamento baldanzoso, impugnano i manganelli. Rivolgono gli sguardi verso la curva e sembrano aspettare qualcuno.

Intuisco che sta per succedere qualcosa di insolito. Sulla strada vedo salire un giovane a piedi, l’hanno superato e si sono fermati ad aspettarlo. Infilo la porta di casa, me la chiudo alle spalle , corro per le scale al primo piano per vedere meglio. Quando da dietro alle persiane butto gli occhi giù, il giovane sta già crollando sotto scariche selvagge di manganellate.

Tutti insieme si avventano su di lui, pestano, pestano, colpi sordi che lo spaccano dentro. Massacrato, sanguinante, ridotto a un fantoccio informe, come una bestia, lo trascinano sul bordo strada e lo lasciano morire. Ancora impietrita e tremante, con il respiro che mi muore dentro, vedo un uomo, lo riconosco è di Statale, viene giù sulla strada in direzione opposta, in una mano regge un sacchetto.Sento la voce arrogante del caporione <<Cos’hai li’?>> e indica il sacchetto <<un po’ di riso, me l’ha dato mio fratello di San Salvatore, là qualcosa da mangiare si trova, a Statale è miseria>> , Dice la verità e certo di parlare con persone che non hanno dimenticato del tutto cos’è la compassione.

I fascisti lo guardano con disprezzo, come avesse commesso la più scontata e peggiore delle colpe di questo mondo, ha solo fame.

Con ghigni di scherno e un’aria divertita , gli prendono il sacchetto e lo riempono di botte. Lo picchiano sulla faccia, lo stomaco, le reni, il sangue schizza, gli cola sul viso, sui vestiti. E pensare che era della loro stessa idea, sapevo che aveva simpatie fasciste.

Poco dopo arriva la corriera da Chiavari e si ferma al capolinea, qui alla posta, scende un vecchio contadino e viene in direzione del camion dei fascisti. Uno di loro gli chiede con fare fare provocatorio e un tono sfrontato <<e tu da dove vieni?>> cerca un pretesto qualsiasi <<Sono andato alla Croce Rossa a Chiavari per sapere come posso scrivere a mio figlio che è prigioniero in Germania>> risponde candido il vecchio, convinto che comprendano la sua preoccupazione di padre.

Ma questi sono bestie, non esseri umani e infieriscono sui poveri malcapitati. Guardano il vecchio come un insetto da schiacciare. Io diventata di ghiaccio vedo tutto dalla finestra. Per la terza volta sfogano la loro brutalità, gli danno un sacco di botte, con tutto il disprezzo e la vigliaccheria di cui sono capaci. In sei contro un povero anziano, sotto lo sguardo impietrito del caporione…non si sporca le mani perchè è vestito come un damerino. Girandole di manganellate da rompergli le ossa e altro sangue che cola sulla strada. Non dimenticherò mai tutte quelle chiazze rosse davanti a casa.

Ma il giorno maledetto non è ancora finito. Mia madre era salita a un campo poco sopra la strada per andare a raccogliere delle cipolline novelle, avverte voci, grida e lamenti. Scende giù verso casa per capire cosa stesse succedendo. Cerca subito di fare da scudo per fermare il pestaggio del vecchio.

Come mia madre si mette in mezzo, una delle camicie nere, rivolto agli altri della squadra, grida e ripete con voce alterata <<Questa è una ribelle! Bisogna fucilarla!>>.

L’afferrano e la spingono contro il camion, imbracciano i fucili pronti a spararle come a un animale. So che secondo l’umore del momento a questa gente basta una parola in più o un gesto sbagliato per ammazzarti. Dalla finestra non distinguo la faccia del fascista che grida ribelle contro mia madre.

Corro in strada per salvarla. Da vicino lo riconosco , è di Nascio, il paese più su e abita a Lavagna. Ci deve settecento lire , se li convince a fucilare mia madre estingue il debito. Mi ci butto ai piedi, in ginocchio lo imploro di non farlo, per pietà, che mia madre è una brava donna, piango. Quell’uomo , il fascista di Nascio, è ormai morto, l’ho mandato all’inferno, nessuno preghi per la sua anima.

Anche per me quel giorno infame sta per concludersi con una tragedia. Ma ecco che dopo tutto quel sangue succede un miracolo. L’autista del camion che durante i pestaggi è rimasto al volante, dal finestrino vede mia madre contro il cassonetto con le armi spianate intorno, scende a terra, svelto la prende per un braccio e dice con voce ferma agli altri <<Questa donna non si tocca>> . Con una parola ti ammazzavano con l’altra di salvavano, in quel tempo non eri mai sicuro della tua vita.

Un giorno, la guerra era finita da un po’, sono entrata in un negozio per comprare una cosa, il proprietario dietro il banco mi ha rivolto uno sguardo sorpreso ed imbarazzato. Ci siamo riconosciuti, lui era l’autista del camion della squadraccia fascista, al momento di pagare l’uomo mi ha fissato negli occhi con uno sguardo turbato, quasi impaurito.

Dopo diversi anni da quel tragico giorno, non si aspettava di rivedermi davanti a lui. Gli ricordavo gli anni nefandi della sua vita, quelli da cancellare per sempre. Ha scosso la testa e mi ha detto <<No, lei non mi deve niente, va bene cosi’. Non ci siamo mai visti e anche se ci dovessimo incontrare ancora noi non ci conosciamo>>. Mi ha accompagnato deciso alla porta. Ho mantenuto la promessa e non ho mai rivelato la sua identità. Quella gente cattiva ormai sarà tutta morta.

Quel giorno hanno sfogato la loro bestialità su un giovane lasciato agonizzante sul bordo della strada, colpevole di non essersi arruolato tra quelli di Salò. Poi su un uomo con il sacchetto di riso per sfamare una famiglia, che era pure fascista. Hanno aggredito un vecchio perchè padre di un figlio prigioniero in Germania, che per questo doveva essere un traditore, un nemico.

Non dimenticherò mai il sangue che ho lavato davanti a casa. A me non mi si parli di fascisti.

Sono parole per la memoria di una storia vera ascoltata dalla voce di Argentina alla fine degli anni Novanta, citata per riservatezza solo con il nome di battesimo.

Clicca qui per visualizzare sulla Mappa digitale della Resistenza il luogo di quella tremenda giornata di sangue

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1944, in Val d’Aveto un Agosto di sangue

Fu un Agosto di sangue quello del 1944 in Val d’Aveto (GE).

Siamo nelle fasi finali della Seconda Guerra Mondiale e i Nazisti sono in ritirata dietro la linea Gotica dopo un anno dalla caduta del fascismo, con la collaborazione di delatori in camicia nera al servizio di Mussolini e della Repubblica Sociale di Salò si macchieranno di atroci eccidi in tutto il nord Italia.

Una lunga scia di sangue che non risparmierà la popolazione civile ed in particolare i contadini, le figure religiose come i parroci delle frazioni di montagna, le donne prima violentate e poi uccise, una furia omicida che non farà sconti nemmeno ai bambini e ai neonati che in alcune occasioni vengono persino utilizzati come tiro a segno vivente dalle doppiette nazifasciste.

In Val d’Aveto, quello dell’Agosto 1944, fu un mese che rimarrà per sempre nella memoria dei suoi abitanti, i primi a cadere furono i Partigiani che in quell’area operavano a difesa della popolazione che all’improvviso, a seguito dei rastrellamenti nazifascisti, si trova ad essere terreno oggetto di tremende barbarie.

In ordine cronologico il 24 Agosto 1944 la morte del Partigiano Domenico Raggio “Macchia” di Lavagna. La formazione di “Virgola”, in seguito divisione “Coduri”, era stata suddivisa in due distaccamenti dipendenti dalla “Cichero” uno dei quali, comandato dallo stesso “Virgola”, si era attestato al passo dell’Incisa, sulle pendici del Monte Penna.

In quei giorni era infatti iniziato un grande rastrellamento dei nazifascisti, rinforzati da reparti della “Monterosa”, con l’obiettivo di snidare i partigiani dai valichi che controllavano l’accesso alla Riviera Ligure.
Il primo tragico fatto accadde proprio nei giorni in cui erano in atto i preparativi di difesa e fu provocato dal tentativo di recuperare l’esplosivo contenuto in alcune bombe rimaste a bordo di un aereo inglese caduto sul Penna. Forse fu l’inesperienza che causò lo scoppio di una bomba che raggiunse in pieno il giovane partigiano “Macchia”, che morì poche ore dopo, mentre Raimondo Giobatta “Piccolo” di Sestri Levante rimase gravemente ferito, tanto che perdette completamente la vista. Rimasero pure feriti “Italo”, “Naccari” e “Billi”.

Il 27 Agosto 1944 la medesima sorte toccò a Brizzolara Andrea di Villanoce colpito a morte da mano sacrilega all’età di 27 anni.

Nella stessa giornata fu la volta del Partigiano Silvio Solimano “Berto” di anni 19, nato a Santa Margherita Ligure ed aggregato alla Brigata Garibaldi “Cichero”, così ne tratteggia l’eroica figura, la motivazione della massima ricompensa al valor militare:

Già noto alle polizie nazifasciste per i suoi sentimenti contrari e ribelli all’oppressore, fu tra i primi animatori del movimento clandestino. Arrestato, riusciva arditamente ad evadere e passava, sprezzante di ogni pericolo, alla lotta aperta nelle formazioni partigiane. Sabotatore audace, combattente valoroso, compiva leggendarie gesta, degne delle tradizioni della sua gente. Durante un rastrellamento effettuato da soverchianti forze nazi-fasciste, che minacciavano di accerchiamento una Divisione partigiana, alla testa di un gruppo di audaci si lanciava eroicamente contro il nemico, che sorpreso da tanto ardimento, si sbandava lasciando sul terreno morti e feriti ed abbondante materiale bellico. Nell’eroico gesto cadeva, colpito in fronte, facendo olocausto della sua giovane esistenza per la salvezza della grande unità partigiana. Fulgido esempio di strenuo valore, di altruismo e di completa dedizione alla causa“. Al giovanissimo partigiano è stata intitolata una via di Genova.

Il 29 Agosto 1944 le case di Allegrezze vengono date alle fiamme dai Nazifascisti, un accadimento che generò altre morti innocenti e che proviamo brevemente qui a riportare grazie al documento dell’A.N.P.I. di Santa Margherita Ligure, che è stato pubblicato nel libro di Marina Marchetti “Sognando la pace… racconti di guerra: 1943-1945”, edito dal Comune di Santa Margherita Ligure nel 2005:

Il Prof. Vittorio Podestà medico chirurgo radiologo sottoscrisse la seguente testimonianza:

Chiavari, 30 giugno 1946
Il sottoscritto dichiara che la sera del 27 agosto 1944 alle ore 17,00 circa venne prelevato (arma alla mano) da due soldati accompagnati da due borghesi che erano stati prelevati in rastrellamento da una colonna di Nazi-Fascisti (Gruppo Cadòlo di Esplorazione della “MONTE ROSA”) ed invitato a recarsi ad Allegrezze D’Aveto per prestare soccorso medico a feriti nel combattimento in corso con un gruppo di Partigiani che aveva aggredito la colonna stessa. – Il sottoscritto era alla Villa D’Aveto dove aveva la propria famiglia sfollata, e da pochi giorni era venuto a visitarla. – Il sottoscritto si fece accompagnare dal figlio del suo padrone di casa Sig. Zaraboldi Costantino ed insieme ai militari e borghesi suddetti si recò ad Allegrezze che dista circa un Kl.m. : Ferveva sempre il combattimento.- Ivi giunto, trovò il Parroco don Primo Moglia dal quale apprese che lui stesso era stato preso in ostaggio dal Comandante della Colonna di Nazi-Fascisti e che mentre veniva condotto a Santo Stefano con la stessa, aveva inizio un fiero combattimento con i Partigiani, per cui la Colonna stessa era stata decimata ed aveva dovuto retrocedere : Il Parroco don Primo allora aveva disposto il raccoglimento dei feriti e dei morti improvvisando in casa sua (Canonica) l’infermeria.- Infatti io trovai nei vari letti e stanze, una quantità di feriti più gravi. – Pregai il Parroco disporre in modo che mi si aprisse la scuola di fronte alla sua Canonica per poter medicare e curare e ricoverare anche gli altri feriti che via, via affluivano portati dai borghesi.- Posso attestare che la Popolazione di Allegrezze guidata dal Suo Parroco fece miracoli in quella sera ed in tutta la notte successiva, mettendo a disposizione i pagliericci e la biancheria occorrente a medicare e
ricoverare ben 37 feriti gravi e portare al cimitero sette morti.- Furono tutti medicati dal sottoscritto con l’aiuto della Popolazione ed in modo speciale del Parroco e di una donna che era stata presa in ostaggio certa Caprini Maria. Nella notte stessa, con l’aiuto dell’interprete Tedesco P. Tomas ROCKERT, il sottoscritto poté ottenere dal tenente Tedesco delle SS che apparteneva al Comando della Colonna stessa, la promessa su Parola d’Onore dello stesso di liberare all’alba gli ostaggi presi e tra questi il Parroco Don Primo Moglia ed il giovane Sacerdote Don Giovanni Barattini di Alpicella : Tutto ciò in premio dell’opera veramente encomiabile prestata da Don Primo e dalla Popolazione della Sua Parrocchia da Lui Guidata.- Infatti, all’alba del giorno dopo, prima di partire (il sottoscritto) per recarsi alla sua abitazione, si accertò personalmente che tale liberazione fosse mantenuta.- Purtroppo, il giorno appresso, venne bruciato il Paese su ordine di un delinquente Italiano che comandava la Colonna : Maggiore Cadèlo, che infrangendo la parola d’onore con il sottoscritto impegnata in proposito dal tenente Tedesco dell S.S. a Lui in sott’ordine, mentre al mattino del 29 Agosto 1944 il Parroco Don Primo Moglia celebrava la Messa per la Festa della Madonna della Guardia presente tutti i suoi Parrocchiani, faceva circondare il Paese e appiccicava il fuoco a tutte le abitazioni della Frazione impedendo ai Parrocchiani dalle altre Frazioni di accorrere in aiuto per spegnere gli incendi. La Chiesa restò salva soltanto perché il Parroco si era adoperato come già detto per i feriti.- Così anche la scuola, la canonica e la stessa sua Vita.- Due giorni dopo assieme al Parroco Don Primo Moglia, al Becchino, ed al Figlio del suo padrone di casa Sig. Costantino Zaraboldi, per iniziativa del sottoscritto, si recano in località “La Cava” per raccogliere il Cadavere del Partigiano Berto che per ordine del su menzionato Maggiore Cadèlo era stato lasciato sulla strada con minaccia per chi lo avesse toccato, e gli diedero onorata sepoltura.- La Cassa fu fabbricata dallo stesso Costante Zaraboldi gratuitamente.- Un mese dopo, circa, tanto il sottoscritto (che aveva rimesso di propria tasca tutta la medicazione dei feriti stessi) che il Zaraboldi e il Padre Suo, furono arrestati assieme al Parroco di S. Stefano d’Aveto ed al Parroco di Pievetta, sotto l’accusa di collaborazione con i Partigiani, e non vennero fucilati assieme ad altri otto disgraziati del Luogo, solo perché nel frattempo il Maggiore Cadelo*(che aveva dato l’ordine di fucilazione) venne ucciso in imboscata dai Partigiani.- In fede di Quanto Sopra sono.
F.to: Prof. Dott. VITTORIO PODESTA’

*Maggiore Cadelo Gerolamo della Divisione Monterosa, con sede a Rezzoaglio.

Il 30 Agosto 1944 fu l’ultimo giorno di vita per il Partigiano Giovanni Galloni “Razza” di Setterone (Bedonia).

 La staffetta “Razza” era arrivata la sera del 29 agosto portando a “Virgola” l’ordine di
resistere sul passo il più a lungo possibile. La mattina dopo iniziò l’attacco nemico e “Razza”, che si preparava a ritornare al comando, venne colpito da una granata che lo uccise sul colpo.
Il suo sacrificio non fu vano, “Virgola” e la sua formazione ben posizionata e mimetizzata
fra i boschi, oppose una tenace resistenza ai tedeschi e agli alpini della “Monterosa” intenti nel massiccio rastrellamento della vallata lasciando sul terreno morti e feriti, mentre fra i partigiani non ci furono ulteriori perdite.

L’ultima tragedia in ordine cronologico fu quella del 2 Settembre 1944, la storia è quella del giovane Carabiniere Albino Badinelli.

Nacque a Allegrezze, frazione di Santo Stefano d’Aveto, il 6 marzo 1920, figlio di Vittorio e Caterina Ginocchio. Al termine degli studi decise di arruolarsi nell’arma dei Carabinieri, e nel 1939 iniziò a frequentare l’Accademia militare di Torino. Il 1 marzo 1940 viene incorporato, quale carabiniere ausiliario a piedi, presso la Legione Allievi Carabinieri di Roma, con la ferma di leva di 18 mesi. Il 10 giugno, con l’entrata in guerra del Regno d’Italia, diviene carabiniere effettivo, e trasferito alla Legione di Messina il 14 dello stesso mese, viene destinato a prestare servizio a Scicli. Il 2 maggio 1941 è trasferito alla Legione di Napoli ed incorporato nel neocostituito XX Battaglione CC. RR. mobilitato, con cui al termine dell’invasione della Jugoslavia raggiunge Zagabria, in Croazia, territorio dichiarato in stato di guerra, il 21 settembre 1941. Assegnato a prestare servizio nella città di Knin, svolse compiti di vigilanza e polizia militare nella zona occupata dalla 12ª Divisione fanteria “Sassari”, dipendente dal IV Corpo d’armata in forza alla 2ª Armata.

Rientrato in Patria è destinato a prestare servizio presso la Legione di Parma, assegnato alla stazione di Santa Maria del Taro, in omonima provincia. Dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943 si diede alla macchia, ma rimase nel territorio controllato dalla Repubblica Sociale Italiana. All’inizio del 1944 la sua caserma viene attaccata dai partigiani e rimane isolata e senza poter ricevere ordini. Consigliato a rientrare a casa, raggiunse i suoi genitori a Santo Stefano d’Aveto, che lo nascosero. Nei primi giorni di agosto il territorio dei paesi limitrofi di Casoni, Amborzasco e Alpicella d’Aveto, è oggetto di un rastrellamento da parte dei soldati della RSI, che il 27 dello stesso mese scesero verso Santo Stefano d’Aveto. Il giorno 29 i soldati del comandante del gruppo di esplorazione della 4ª Divisione alpina “Monterosa”, maggiore Cadelo (detto “Caramella”), raggiunsero Allegrezze dandolo alla fiamme, si salvarono solo la chiesa e la canonica. Il 2 settembre il maggiore Cadelo emise un ordine perentorio in cui si diceva che se tutti gli sbandati e i renitenti alle armi non si fossero presentati presso il comando, sito nella Casa del Fascio di Santo Stefano d’Aveto, avrebbe fatto fucilare tutti i 20 ostaggi e incendiato il paese. Raggiunto spontaneamente il comando, fu messo a colloquio con Cadelo, il quale appena seppe che era un carabiniere lo considerò un disertore e lo condannò immediatamente a morte tramite plotone di esecuzione. Chiesto di potersi confessare, cosa che gli fu negata, tuttavia ebbe la possibilità di confidarsi con monsignor Giuseppe Monteverde che, avvertito da un ragazzo, lo aveva raggiunto presso la Casa del Fascio. Il parroco lo confessò e lo benedisse raccomandandolo alla Vergine di Guadalupe e gli consegnò un crocefisso. Accompagnato dal monsignore fu portato nei pressi del cimitero e posto di spalle contro il muro fu immediatamente fucilato. Poco prima di ricevere la scarica mortale esclamò: Dio perdona loro perché non sanno quello che fanno!. Il corpo fu lasciato esposto per ordine di Cadelo, a monito per la popolazione, ma venne trafugato da alcuni paesani guidati da monsignor Casimiro Todeschini, e posto su una scala di legno fu trasportato a spalla fino ad Allegrezze dove venne sepolto dal locale parroco monsignor Primo Moglia nel cimitero, dopo un breve rito funebre. Lasciava la sua famiglia e la fidanzata Albina.

Il 21 Settembre 2019 la Caserma militare dell’Arma dei Carabinieri viene intitolata proprio ad Albino Badinelli.

Tutti i luoghi, le immagini e le storie riportate in questo articolo sono visualizzabili e raggiungibili grazie alla geolocalizzazione della Mappa digitale della Resistenza nel Tigullio, clicca qui sopra per vederli.

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“1944: quel luglio di sangue”

Sidolo (Parma), 20 luglio 1944.
Era un giovedì a Sidolo, piccola e sperduta frazione di Bardi (Parma), quando vennero fucilati Gerolamo, di anni 50 e Giovanni Brugnoli,di anni 40, fratelli di mio nonno Francesco.
Insieme a loro morirono il parroco don Giuseppe Beotti, di anni 32; don Francesco Delnevo, borgotarese di anni 57; il chierico Italo Subacchi, di anni 23; i borgotaresi Giuseppe Ruggeri, di anni 44; Bruno Benci, di anni 43 e Francesco Bozzia, di anni 44.
Don Riccardo Molinari, allora parroco di Cereseto, “sulla scorta di testimonianze veritiere di persone che assistettero alle scene svoltesi”, così descrive i fatti verificatisi in questo giorno.
“Una colonna nazi-fascista, dopo aver stampate orme sanguigne su Strela e dintorni, piombava sul paesetto alle ore 6 del mattino. Anche qui gli uomini si erano dati alla macchia per paura dei tedeschi. Rimanevano in paese alcuni vecchi, le donne e i bambini, e in Canonica due Sacerdoti e un Chierico: l’Arciprete don Giuseppe Beotti, il Prevosto di Porcigatone don Francesco Delnevo e Italo Subacchi, alunno del Seminario di Parma .
All’una e mezza circa, un soldato armato fino ai denti, si presentava con aria sospetta alla Canonica per prelevare il Parroco e i due compagni.
Don Giuseppe come un agnello mansueto condotto al macello, seguì il soldato, tra i due confratelli sulla strada che conduce al di là del Rio.
I tre sacerdoti erano stati allineati lungo il muricciolo che protegge un piccolo appezzamento di proprietà della Chiesa.
Su quel Calvario, tra un succedersi continuo di soldati che passavano beffardamente davanti a loro, essi vissero l’ultima ora tragica di vita, in un’angoscia spasmodica attendendo e assaporando la morte goccia a goccia.
Qualcuno poté però notare, di lontano, che a un dato momento essi si scambiarono pietosamente l’assoluzione e si diedero l’abbraccio fraterno.
Perché quell’agonia prolungata per più di un’ora? Quando gli ordini, impazientemente attesi, arrivarono, l’arma scattò e spense freddamente le tre persone sacre.
Tutto ciò senza un giudizio che avesse almeno l’ombra di un processo, senza un’accusa manifestata e senza che i tre imputati potessero avanzare il diritto di una parola in difesa della propria innocenza.
Erano le tre pomeridiane di quel triste giovedì 20 luglio.
Don Giuseppe e don Delnevo, colpiti in parti vitali, erano immediatamente deceduti. Il Chierico Italo Subacchi invece prolungò per parecchio tempo, tra laceranti contrazioni, la sua fine prematura” e qui riprendiamo noi a raccontare le cose.
Il rastrellamento in atto da qualche giorno, ha spinto molti borgotaresi a trovare salvezza sulle alture che circondano il paese. In molti si ritrovano, il giorno 19 a Porcigatone, ritenuta una zona abbastanza sicura. Ma i tedeschi sono impegnati in un’operazione di rastrellamento che dovrebbe interessare ogni vetta, ogni paese, ogni anfratto della valle. Così quel giorno una lunga colonna parte da Borgotaro e s’avvia verso la frazione di Porcigatone.
I fuggitivi intuiscono il pericolo, abbandonano le case e si portano ancora più in alto, verso il Passo del Santa Donna, per trovare riparo tra i boschi. Ma i tedeschi li inseguono, li braccano, costringendoli a dividersi in piccoli gruppi e a tentare vie di fuga diverse.
Sei di loro, insieme al Parroco, oltrepassano il crinale e scendono a Sidolo. Non sono a conoscenza di quanto, in quello stesso giorno, sta succedendo a Compiano e Strela, altrimenti non avrebbero di certo scelto Sidolo come rifugio.
Al loro arrivo nella frazione trovano, infatti, la popolazione in preda al panico e vengono invitati in modo perentorio ad allontanarsi per non creare pericolo.
I sei trovano così riparo fuori dall’abitato, in una capanna dove solitamente veniva ospitato il bestiame.
E’ il 20 luglio, i sei si risvegliano e sanno di dover affrontare una dura giornata. Stanchi, braccati, respinti anche dai compaesani perché la paura sconfigge la generosità, cosa fare? Dove dirigersi?
Ecco la testimonianza dell’unica persona, tra i sei, che riuscirà a sopravvivere.
Antonio Brugnoli (si tratta del padre di Franco), allora ventiquattrenne, racconta:
“Alle prime luci del nuovo giorno – era il 20 luglio – io convinsi i miei compagni che era meglio avvicinarci al paese giacché eravamo tutti stanchi, sfiduciati e affamati. Giungemmo dunque al centro di Sidolo, quando udimmo all’improvviso le grida della gente che annunciavano la presenza dei tedeschi. Scorgemmo soldati ovunque: non potendo fuggire andammo loro incontro nella convinzione di persuaderli facilmente che noi eravamo dei civili innocenti. Sì, però non capirono le nostre parole e ci ammassarono in un campo recintato presso il paese. Un soldato italiano con il quale parlai mi rassicurò e mi invitò alla calma. All’arrivo di una nuova colonna, un ufficiale tedesco gridò: “Kaput!, Kaput!” e noi comprendemmo che le cose si mettevano male. Infatti ci portarono davanti al cimitero di Sidolo, distante poche decine di metri, per fucilarci.

Io ero davanti alla fila a sinistra. All’intimazione dell’alt seguì il caricamento delle armi. Io allora tentai il tutto per tutto: mi gettati a testa bassa giù per un sentiero fiancheggiante il cimitero che scendeva leggermente. Corsi come mai in vita mia mentre le pallottole sibilavano da tutte le parti. Giunsi in un baleno in fondo al sentiero che trovai sbarrato da un cancello: lì terminava la strada. In un attimo presi la decisione di gettarmi al di là di esso in un precipizio profondo una ventina di metri. Dopo un lungo ruzzolone mi trovai in un canale, malconcio ma integro. Ero pieno di vita e mi pareva quasi di essere invulnerabile, giunsero infatti altre raffiche ma non mi colpirono”.

Minor fortuna tocca ai cinque compagni di Antonio Brugnoli. Per loro non c’è pietà alcuna. La raffica li stende a terra, dove rimangono per ore al fiuto dei cani e all’attacco delle mosche. Valerio e sorelle, Mario e Antonio, Giacomo e sorella, un velo di tristezza resterà per anni nei loro sguardi.
Passeranno poche ore e sarà la volta dei tre religiosi dei quali già abbiamo scritto.


Liberamente tratto da: “1944: quel luglio di sangue”, di Giacomo Bernardi – Associazione Ricerche Storiche Valtaresi “A.Emmanueli” (Borgotaro)

Clicca qui per vedere il luogo della fucilazione sulla Mappa digitale

Dall’italianizzazione forzata dei popoli di lingua slava ai campi di concentramento

Nel 1923, tre anni dopo il Trattato di Rapallo (che ridisegnò i confini dell’Italia nord-orientale annettendo Gorizia, Trieste, Pola e Zara), il regime fascista intraprese una politica di italianizzazione forzata nei confronti della comunità slovena. Politica che, successivamente, fu estesa a tutto lo stivale.

Con la legge n. 2185 del 1/10/1923, fu abolito l’insegnamento della lingua slovena nelle scuole. Non solo, parlare una lingua che non fosse l’Italiano (in questo caso la lingua slava) venne assolutamente vietato in tutti i luoghi pubblici.

Ma non era abbastanza: anche la toponomastica subì l’italianizzazione.

Migliaia di cognomi di origine slava e croata vennero modificati e tradotti in italiano.

Manifesto affisso nella città di Dignano (UD) che vieta l’uso della lingua slava nei luoghi pubblici

Il costume de Il Popolo d’Italia il 10 luglio 1938, scriveva:

«Basta con gli usi e costumi dell’Italia umbertina, con le ridicole scimmiottature delle usanze straniere. Dobbiamo ritornare alla nostra tradizione, dobbiamo rinnegare, respingere le varie mode di Parigi o di Londra o d’America. Se mai, dovranno essere gli altri popoli a guardare a noi, come guardarono a Roma o all’Italia del Rinascimento… basta con gli abiti da società, coi tubi di stufa, le code, i pantaloni cascanti, i colletti duri, le parole ostrogote»

La politica di snazionalizzazione operata dal fascismo partì già dagli anni ’20, così nella Venezia Giulia vennero progressivamente eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croate rinnovate dopo la prima guerra mondiale.

Le scuole furono tutte italianizzate, gli insegnanti in gran parte pensionati, trasferiti all’interno del regno, licenziati o costretti ad emigrare.

Vennero posti limiti all’accesso degli sloveni nel pubblico impiego, soppresse centinaia di associazioni culturali, sportive, giovanili, sociali, professionali, case popolari, biblioteche, partiti politici e stampa vennero posti fuori legge.

Fu eliminata qualsiasi rappresentanza delle minoranze nazionali e proibito l’uso della lingua, le minoranze slovena e croata cessarono così di esistere come forza politica.

Furono migliaia le vittime della politica di “snazionalizzazione” e repressione del regime fascista in terra slava, sotto la guida dei generali Roatta e Robotti, che il 4 Agosto 1942 sentenziò: “Si ammazza troppo poco”.

Il generale Robotti fu sempre al comando dell’XI Corpo d’Armata e funse da capo militare nella provincia annessa di Lubiana occupata dall’esercito regio, in tale veste fece rispettare scrupolosamente le istruzioni del generale Mario Roatta riguardanti i metodi di repressione ed istruì egli stesso le truppe a procedere con durezza contro la popolazione civile ritenuta complice dei partigiani.

L’incendio del Narodni dom (casa della nazione) a Trieste il 12 Luglio 1920, da parte del movimento fascista che diede l’avvio alla “bonifica etnica” delle minoranze slave; la consegna ai nazisti, da parte delle autorità fasciste di Salò, di migliaia di ebrei votati a sicura morte; la repressione nazionalista fascista che portò 100 mila Sloveni, fra cui molti bambini reclusi nei campi di concentramento di Arbe/isola di Rab (in Dalmazia) dove persero la vita 1435 civili o di Gonars (nel Friuli) e Renicci (Arezzo), e anche la Liguria non ne fu esente (vedi la mappa digitale).

Ciò avvenne con i processi dinanzi alle corti militari, con il sequestro e la distruzione dei beni, con l’incendio di case e villaggi. Migliaia furono i morti, tra caduti in combattimento, condannati a morte, ostaggi fucilati e civili uccisi.

I deportati furono approssimativamente 30 mila, per lo più civili, donne e bambini e molti morirono di stenti.
Furono concepiti pure disegni di deportazione di massa degli sloveni residenti nella provincia.

La violenza raggiunse il suo apice nel corso dell’offensiva italiana del 1942, durata quattro mesi, che si era prefissa di ristabilire il controllo italiano su tutta la provincia di Lubiana.
Improntando la propria politica al motto “divide et impera”, le autorità italiane sostennero le forze politiche slovene anticomuniste specie d’ispirazione cattolica le quali, paventando la rivoluzione comunista, avevano in quel modo individuato nel movimento partigiano il pericolo maggiore e si erano rese perciò disponibili alla collaborazione.

Esse avevano così creato delle formazioni di autodifesa che i comandi italiani, pur diffidandone, organizzarono nella Milizia volontaria anticomunista, impiegandole con successo nella lotta antipartigiana (fonte relazione della commissione Italo-Slovena).

La morte nei campi italiani sopraggiungeva per malattia ma soprattutto per fame, le calorie giornaliere che potevano assumere gli internati erano circa 800 al giorno, praticamente un terzo di quelle minime necessarie alla sopravvivenza.

Questo nell’autunno del 1942, portò il tasso di mortalità nei campi di concentramento al 19%, un valore superiore a quello dei lager nazisti (stimata in circa 16 mila vittime).

Cimitero campo di concentramento di ARBE (fonte http://www.confinepiulungo.it)

Solo in Liguria i campi di concentramento per le popolazioni del confine orientale erano quattro (vedi la mappa digitale):

Torriglia (Genova) Campo di concentramento per congiunti di ribelli della provincia del Carnaro. 

Cairo Montennotte (Savona) Campo per prigionieri di guerra Greci e civili Sloveni, il campo viene destinato all’internamento dei civili, in particolare quelli della Venezia Giulia. Il campo si trovava dove oggi sorge lo stadio “Cesare Brin” – una lapide in marmo ricorda “In questo luogo – si legge sulla targa – sorgeva il campo di concentramento nr 95. Da qui, l’8 ottobre 1943 furono deportati nei lagher di Mauthausen 999 prigionieri civili. A loro il nostro ricordo“.

Spotorno (Savona) Internamento di civili Croati. Il 16 luglio 1942 a Spotorno vengono internate 29 persone tutte provenienti dalla cosiddetta provincia del Carnaro (il nome assegnato al territorio jugoslavo annesso all’Italia nel 1942 con al centro la città di Rijeka, cioè Fiume). I locali dove furono alloggiati gli internati croati si trovavano presso il Teatro San Filippo Neri, edificio demolito negli anni ’60 del secolo scorso per fare spazio alla costruzione della nuova caserma dei Carabinieri.

Pieve di Teco (Imperia) Campo d’internamento per civili Jugoslavi.

Tra i numerosi linguisti e intellettuali favorevoli al processo di italianizzazione, non poteva di certo mancare il poeta-“vate”. Termini come tramezzino (al posto di sandwich) ed espressioni come eja eja alalà! (al posto di hip hip hurrà) sono da attribuire proprio a Gabriele D’Annunzio.

Furono più di 500 le parole tradotte in italiano, dai termini della sofisticata cucina francese ai termini inglesi utilizzati per lo sport, passando per i nomi propri di persona (George Washington divenne Giorgio Vosintone, Louis Armstrong fu Luigi Braccioforte) e le città straniere come Buenos Aires, Buonaria. 

Un elenco di alcune parole italianizzate

Clicca per visualizzare la Mappa digitale della Resistenza nel Tigullio.

Fonte: https://www.archeome.it/approfondimento-le-parole-proibite-dal-fascismo/

QR Code libro “Storie, racconti e una mappa della Resistenza-Prontuario della memoria”

60.000 – SESSANTAMILA.

Non sono “like”, non sono “emoticons”, sono VISUALIZZAZIONI !!!


Per tre anni, dalla prima pubblicazione, c’è stata una media di oltre 50 visualizzazioni giornaliere.
Sessantamila persone sono uno stadio stracolmo, sessantamila persone sono la somma degli abitanti di Chiavari e Rapallo.
Sessantamila visite per una mappa digitale che racconta la storia di un territorio di 100 mila abitanti.
Come sempre l’unica cosa che posso fare e dirvi GRAZIE!!!❤️

Nei prossimi mesi arriverà un ulteriore strumento per l’approfondimento e la conoscenza della Resistenza nel Tigullio, e non solo.

Qui trovate il link alla mappa, al sito e ai canali social media: https://linktr.ee/matteo_brugnoli

Lavagna ricorda il Carabiniere Partigiano A.E. Canzio.

In data 5 Ottobre 2022, la sezione A.N.P.I. Lavagna e Valli Aveto Sturla Graveglia in collaborazione con l’Arma dei Carabinieri, hanno ricordato il sacrificio del Maresciallo Maggiore in congedo Antonio Enrico Canzio, nel giorno del 78° anniversario dal suo sacrificio.

Antonio Enrico Canzio

A vent’anni dall’intitolazione del Comando della locale caserma dell’Arma dei Carabinieri di Lavagna, si è voluto omaggiarne la memoria e l’importante personale contributo all’organizzazione della resistenza partigiana nel Tigullio, grazie alla partecipazione a numerose azioni di guerriglia e sabotaggio.

Un’immagine della commemorazione (FotoFlash)

Nato a Castiglione Chiavarese (Genova) il 13 giugno 1900, fucilato a Chiavari (Genova) il 5 ottobre 1944.
Il maresciallo dei Carabinieri in congedo Antonio Enrico Canzio fornì un cospicuo contributo all’organizzazione della Resistenza nel chiavarese e partecipò a numerose azioni di guerriglia e sabotaggio contro le forze nazifasciste. 

Comandante di distaccamento partigiano, arrestato una prima volta e sottoposto poi a stretta sorveglianza dalle autorità occupanti, continuò nel suo impegno costituendo un centro di appoggio e di rifornimento delle formazioni clandestine in una fattoria di montagna della quale era proprietario.

Catturato una seconda volta nel corso di un rastrellamento, ebbe distrutta la casa per rappresaglia e fu sottoposto a torture affinché rivelasse i particolari della struttura organizzativa dei resistenti. Non parlò, proteggendo così l’incolumità dei suoi compagni di lotta. Per questo fu condannato a morte e fucilato al Poligono di tiro di Chiavari

Nel dopoguerra alla memoria di Canzio fu assegnata la Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Cadeva valorosamente, passato per le armi, inneggiando all’Italia. (Appennino ligure-emiliano, 10/6/1944 – Poligono di Chiavari, 5/10/1944)”.

Di seguito la testimonianza tratta dal Diario di Aldo Vallerio “Riccio” (Ne è valsa la pena? pag 549):

“…Il maresciallo Canzio invece, era già da tempo tenuto d’occhio ed inserito nella lista degli antifascisti e quando infatti fu a Chiavari, i fascisti, con le buone o con le cattive, pretendevano che parlasse, che facesse dei nomi, che denunciasse i cospiratori ed i ribelli che conosceva, se voleva aver salva la vita. Ma il maresciallo non batté ciglio. Subì ed ingoiò tutto in silenzio. Sempre con grande dignità e fierezza. rifiutando la salvezza, piuttosto che tradire la causa che aveva accomunato in un unico ideale di democrazia, uomini di tutte le idee e di tutte le tendenze, per la conquista del bene supremo cui aspira ogni uomo degno di questo nome: la libertà.

E quando i fascisti si resero conto che non sarebbero mai riusciti a piegare la resistenza di questo irriducibile maresciallo dei carabinieri, che guardava fisso negli occhi i suoi aguzzini, e che aveva scelto la causa del popolo e la via dell’onore, lo portarono al poligono di tiro, presso il cimitero di Chiavari per fucilarlo.

Ed egli marciò eretto nella figura, la barba lunga, lo sguardo fiero ed il viso contratto verso il plotone di esecuzione che lo attendeva a ridosso di un muro coperto di edera.

Una lunga raffica ruppe il silenzio della mattina avvolta nella bruma. Non si sentì nessun grido, ma solo un tonfo sordo.

Era morto da eroe, un maresciallo, un vero maresciallo dei carabinieri, diventato partigiano per sete di giustizia e amore di patria, che piuttosto che schierarsi contro il popolo aveva preferito affrontare la totrura e la morte.

È sempre difficile definire un uomo eroe. Ebbene Canzio è stato uomo ed eroe nel vero senso del termine. Per questo gli è stata concessa la medaglia d’argento alla memoria”.

Clicca per visualizzare la caserma sulla Mappa digitale della Resistenza nel Tigullio.

Rapallo – 5 Novembre 1944, i fucilati di Sant’Anna.

Ricostruzione degli eventi di quel tempo fatta dallo storico Agostino Pendola, presidente della sezione ANMIG di Rapallo, nel libro “L’eccidio del muraglione e altre storie della Resistenza rapallese, Gammarò Editore, Sestri Levante, 2009”.

Iniziamo a ricordare i fatti, partendo dai primi giorni del mese di novembre del 1944.

L’agguato:
L’eco dei colpi sparati in rapida successione arrivò forte nella camera dove lavoravano la sarta e le sue allieve; non erano i soliti colpi del poligono di tiro, distante qualche centinaia di metri verso San Massimo, erano colpi molto, molto più vicini, proprio sulla strada che dal ponte conduceva a Santa Maria. Qualcosa di grosso e di importante era successo.

La reazione della sarta fu veloce e prevedibile: “Ragazze – disse – per oggi basta lavorare; prima che arrivi gente andate tutte a casa”. Anche la giovane sartina diciannovenne che abitava a Savagna si avviò verso casa, lungo il greto del torrente prima e poi su per la rapida salita. Non sapeva che seguiva di pochi minuti il drappello partigiano che aveva appena freddato un milite delle Brigate Nere.
L’ucciso non era un fascista qualsiasi: 47 anni, Ferdinando Casassa era il comandante delle Brigate Nere di Santa Margherita Ligure. (1)

Noi non sappiamo cosa lo condusse a Sant’Anna quel pomeriggio di novembre, qualcuno in seguito disse che era stato attirato in un’imboscata dai partigiani con la promessa di uno scambio di prigionieri, e che credeva di andare a un incontro con gli emissari partigiani.
Può darsi; comunque la riprova del ruolo senz’altro importante che rivestiva nel fascismo della Riviera di Levante si ha dal modo con il quale Fiamma Repubblicana, settimanale chiavarese di propaganda fascista, che in realtà appariva una volta al mese in un solo foglio, ne dette la notizia nel numero del 26 novembre successivo: “Ferdinando Casassa: presente” titolò un articolo-apologo in prima pagina di spalla su due colonne con foto, un articolo che in realtà non dava alcuna notizia oltre a quella della morte, e anche questa senza alcun dettaglio “…assassinato dai ribelli in un’imboscata a Sant’Anna di Rapallo”.

Fiamma Repubblicana, del 26 Novembre 1944.


Fiamma Repubblicana sarebbe ritornata sull’argomento ancora una volta, nel numero del 18 marzo 1945, quando pubblicava la foto di tale Giuffra Giuseppe detto “Il biondo di Cassagna”, identificandolo come “uccisore di Ferdinando Cassassa”.(2)


I partigiani che avevano fatto fuoco, erano senz’altro scesi dalla collina di Savagna, perchè proprio questa fu la strada che presero per il ritorno. E non a caso, sopra Savagna si trova un pianoro, Spotà, che allora – come ora – è il più alto nucleo abitato di tutta la collina che termina nei 600 metri del Monte Caravaggio; un sentiero porta rapidamente attraverso i boschi verso il Passo del Gallo, aprendo la via della Fontanabuona.

I residenti ricordano che durante la Resistenza i partigiani arrivavano fino a Spotà, e lì si fermavano ad attendere i loro emissari che da Rapallo salivano a incontrarli. Un luogo tranquillo, lontano dalle strade battute dai tedeschi e dai fascisti.
Siamo certi che presero questa strada perchè vennero visti, e il ricordo ci è stato tramandato. Un invalido di guerra, che trascorreva indisturbato il suo tempo a casa sopra la collina di San Pietro, quel pomeriggio, dopo gli spari vide un gruppetto di uomini che saliva di buon passo, ma senza correre, la salita pedonale che porta, oggi, verso il Ristorante Romina (in via Savagna); solo poche centinaia di metri oltre un contadino che raccoglieva olive vicino alla strada li vide passare:

Uomo– disse uno del gruppo – voi non avete visto niente”.

Certamente l’uomo non avrebbe detto nulla, già consigliere comunale per il Partito Popolare prima dell’avvento del Fascismo, era stato nascosto a lungo per evitare olio di ricino e manganello.
Documenti recenti attribuiscono l’azione alla formazione G.L. Matteotti. Ricordiamo ora che a ottobre-novembre, i suoi uomini realizzarono una serie di azioni fin sulla costa, tra Sori e Recco, tra Ruta, Rapallo e Avegno.
L’8 novembre, una nota del comando elencava le ultime azioni compiute, tra queste scriveva che il Distaccamento autonomo di Giuseppe, durante una ardita azione su Rapallo uccideva in pieno giorno il capo delle Guardie Nere della località e prelevava un altro membro dello stesso Corpo.(3)

La vendetta:
Era tradizione che i tedeschi e i fascisti dopo un attacco partigiano, se avevano riportato vittime, uccidessero alcuni civili, partigiani per rappresaglia.

Il fatto di Sant’Anna seguì questo triste e noto copione. Lo stesso giorno, o forse il giorno dopo dell’uccisione di Casassa, le Brigate Nere di Rapallo condussero sul ponte due giovani, da sacrificare per vendetta dell’attacco subito.

Si trattava di due giovani che erano stati prelevati in carcere a Chiavari, e la cui unica colpa probabilmente era l’essere renitenti. Questo almeno stando alle voci che circolavano a Rapallo (4); che non erano partigiani è peraltro evidente dal testo della lapide che parla di “due giovani ostaggi innocenti vittime”. Ancora un anno dopo la “Voce del Popolo”, giornale rapallese, scriveva che l’unica cosa che “i compagni di cella nella prigione di Chiavari hanno potuto conoscere è stato il luogo di nascita, e cioè il più giovane, di circa vent’anni era di Sampierdarena, l’altro meridionale”.

Entrambi tuttavia avevano al collo una medaglietta della Madonna della Guardia.(5)

Solo molto tempo dopo i fatti uno dei due venne identificato e dopo la guerra la famiglia venne da Livorno a prenderne i resti; l’altro è restato per sempre senza nome. (*)
Tuttavia la fucilazione di questi due poveretti alla ringhiera del ponte non fu affatto semplice. Testimonianze raccolte in seguito parlano di una rivolta del plotone d’esecuzione verso il suo comandante.

Si racconta che i ragazzi della Brigata Nera, tutti di Rapallo e di un’età molto giovane, 17-18 anni, si ribellarono al loro comandante dicendo che proprio non avevano intenzione di ammazzare nessuno. Al che quest’ultimo, di poco maggiore di loro, li accusò di essere vili e codardi, e con una raffica di mitra pose fine alla via degli ostaggi (6).

I loro corpi vennero lasciati per qualche tempo sul ponte a monito per la popolazione; un medico che abitava nelle vicinanze transitando in bicicletta si fermò e, avvicinatosi, osservò attentamente le ferite. Probabilmente voleva rendersi conto se la morte era stata rapida.
Ricordiamo per inciso cos’erano le Brigate Nere. Il Corpo Ausiliario della Brigate Nere era stato costituito con Decreto (il n. 446 del 30 giugno 1944) con il compito di militarizzare gli iscritti del Partito Fascista Repubblicano. Vi dovevano aderire tutti gli iscritti tra i 18 e i 60 anni che già non facevano parte della Forze Armate, aveva compiti di ausilio nella lotta antipartigiana. Non aveva, in teoria, compiti di polizia e non poteva arrestare, restando questi compiti demandati alla polizia. In realtà studi recenti riportano innumerevoli casi di violenze, di arresti e di uccisioni perpetrati non solo sui partigiani, ma anche su semplici cittadini, specialmente nelle campagne. (7)

In pratica le Brigate Nere erano, nel panorama della Repubblica Sociale, uno degli innumerevoli corpi militari che operavano come milizia territoriale (8).


Il ponte di Sant’Anna avrebbe visto ancora una tragica vicenda. La mattina del 28 aprile 1945, cinque fascisti si trovarono di fronte al plotone d’esecuzione. Si trattava di un alpino della Monterosa, una formazione della Repubblica di Salò, di due guardie della polizia economica (la temuta annonaria), e di due Brigate Nere.

Tra questi cinque c’era anche il giovane comandante del plotone d’esecuzione dei due giovani renitenti, del 5 novembre precedente; di un altro si diceva che avesse prestato servizio nella Casa dello Studente di Genova, nota sede di torture per partigiani e patrioti, di un terzo che avesse fatto parte di un gruppo di sbandati irriducibili della Monterosa che poco prima era arrivato fino in centro città (9).

Non sappiamo da chi era formato il plotone d’esecuzione, né se vi fu un processo, negli archivi della Brigata Longhi non ve ne è traccia, né se ne parla nella documentazione della GL Matteotti sui fatti di Rapallo. Si racconta che il più giovane dei cinque rifiutò il cappellano dell’Istituto Vittorino da Feltre, allora a Rapallo, che era stato chiamato per i conforti religiosi (10) . I corpi vennero poi trasportati con un carretto al cimitero per la sepoltura.

(*) Nota: Il 5 novembre 1944 cade a Rapallo Gimorri Filiberto, con buona probabilità potrebbe essere uno dei due fucilati.

Clicca per visualizzare il luogo della fucilazione sulla Mappa digitale della Resistenza nel Tigullio.

NOTE della ricostruzione dei fatti:
(1) per i morti fascisti Albo dei Caduti e Dispersi, a cura della Fondazione della RSI, 2003, disponibile on-line
(2) Bertelloni Canale in Cosa importa se si muore, cit. parlano di due partigiani travestiti da fascisti come autori dell’agguato.
(3) G.Gimelli, La Resistenza in Liguria, Cronache militari e documenti, Carocci, Roma 2005.
Per la Matteotti vedi: V. Civitella, La Collina delle Lucertole, Gammarò Editori, Sestri Levante, 2008
(4) Per le notizie sui due fucilati testimonianza di Luciano Rainusso.
(5) La Voce del Popolo, n. 25 del 10 novembre 1945
(6) Per questo fatto, testimonianza di Franco Canessa.
(7) S.Antonini, La “Banda Spiotta”, De Ferrari, Genova, 2007.
(8) F.Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Milano, 1963.
(9) I nomi: Luigi Ferrari, 49 anni; Ercole Fedele, 39; Tomaso Lasagni, 39; Livio Barni, 19 e Alfredo Tafuri, 21.
(10) Testimonianza di Vincenzo Gubitosi.

Altre fonti: Manlio Piaggio, relazione “Muraglione”, si trova presso l’ Istituto Storico della Resistenza, Genova, Fondo Gimelli.
P. Castagnino, Saetta, Milano, 1974.

Casone di Cento Noci: La testimonianza di “Ermes”.

Lettera/Testimonianza di un sopravvissuto all’eccidio al Casone di Cento Noci (Favale di Malvaro), GB Bazurro “Ermes”, inviata nel Dicembre 2001 a:
– Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea
– A.N.P.I. – Provinciale di Genova
– A.N.P.I. – Sezione Struppa (GE)

Il 22 dicembre 2001 “Ermes” partecipa alla cerimonia in ricordo dei cinque partigiani caduti a Cento Noci e, con dolorosa sorpresa, ha constatato che, dopo 57 anni, c’era ancora chi tentava di gettare ombre sulla Lotta di Liberazione, avendo ascoltato che in quell’occasione il Sindaco affermò che i Partigiani furono colti nel sonno, per questo “Ermes” scriverà quanto segue:


…omissis
.

Da parte mia ho contestato al sindaco la sua versione dei fatti, senza però scendere nei particolari.
Poco tempo dopo detta commemorazione, indignato, ho consegnato all’ANPI Provinciale di Genova una sintetica descrizione dei fatti del 22 dicembre 1944.
Ora ritengo (anche perché sono uno dei pochissimi superstiti) sia mio dovere ricostruire l’accaduto dettagliatamente, avendolo vissuto dal suo nascere alla fine.
Precisare quello che è successo credo sia il modo migliore per ricordare, con spirito garibaldino, i nostri compagni caduti in quella tragica giornata per un errore del comandante Banfi. Errore forse originato dalla sua formazione militare che mal si conciliava con la tattica della guerriglia partigiana, fatta di valutazioni e decisioni rapide, come pure di attacchi e di sganciamenti altrettanto rapidi. La tragedia avrebbe assunto proporzioni gigantesche se il colpo di cannoncino che ha colpito la strafia (teleferica) fosse penetrato tra la casa e la roccia retrostante dove ci eravamo rifugiati.


La storia di Centonoci inizia nel momento in cui il nostro distaccamento, accantonato nelle Sciaree, piccola frazione di Roccatagliata, stava controllando la mulattiera che, inizia nelle vicinanze di Torriglia, passa per la Buffalora e arriva al Passo del Portello. Lo scopo era quello di prevenire attacchi a sorpresa da parte dei nazi-fascisti che, da alcuni giorni, stavano preparando il tristemente noto “rastrellamento di dicembre” (1944).
Nella tarda serata del 20 dicembre arrivò dal Comando di Brigata l’ordine di ritirarci appena possibile perché la zona ormai era indifendibile (la storia c’insegna che la difesa non è mai stata, e non lo sarà mai, tattica della guerriglia). Il nostro distaccamento faceva parte della Brigata “Berto”, dal nome del partigiano Berto, caduto nella battaglia di Allegrezze il 27 agosto 1944, decorato con Medaglia d’Oro al Valor Militare.
All’alba del giorno dopo partimmo per il paese di Barbagelata e arrivammo a Costafinale verso le ore 10.

Davide, il nostro comandante, che nel frattempo aveva preso contatto con la Brigata, ci comunicò che il Comando aveva deciso che non dovevamo fermarci in zona, ma proseguire, insieme a loro, per Favale. Giulin, il nostro commissario, si portò alla testa del distaccamento e ci avviammo verso la nuova destinazione. Camminammo fino a mezzogiorno e ci fermammo vicino a due casupole, in un bosco di castagni, nella frazione Castello, sopra il paese di Favale. Si preparò e si mangiò un po’ di polenta, fatta con la farina di castagne, la cosiddetta “pattona” (cioè la nostra alimentazione quotidiana). Nel pomeriggio una staffetta portò la notizia che i nazi-fascisti erano arrivati nei pressi di Barbagelata, ma che non si conosceva la loro direzione. Banfi disse che, al calar della notte, si doveva ripartire e che non si dovevano lasciare tracce di sorta al fine di evitare che i nazi-fascisti venissero a conoscenza della nostra direzione di marcia.

A notte fonda scendemmo a Favale e ci fermammo vicino al mulino; il proprietario era un antifascista, ci regalò alcune pagnotte e del formaggio, cibo che ci fu utile il giorno dopo. Da lì si ripartì salendo verso il Casone di Centonoci; si salì in silenzio, per quanto fu possibile, dovendo muoverci di notte e su un sentiero molto scosceso. La nostra speranza era quella di portarci fuori dall’area del rastrellamento, ma le cose non andarono nel modo sperato. Ci attendeva una delle giornate più tristi vissute in montagna.
Il giorno 22 iniziò con i primi colpi di cannoncino sparati da oltre il colle e indirizzati verso i monti che racchiudono la vallata di Favale, con prevalenza verso la Rondanaia dalla quale, seguendo il profilo del monte, si arrivava sopra il Casone, dove ci rifugiammo.
Il martellamento del cannoncino con i suoi colpi che si avvicinavano sempre più al nostro rifugio continuarono fino a colpire la strafia, che si trovava a circa 20 metri dal casone, mentre all’interno dello stesso, fra i partigiani, montava la tensione.

Da una parte ci fu chi ritenne giusto sganciarci subito e ripiegare verso il monte Ramaceto (fra essi, Balin disse ad alta voce e con decisione: «Banfi andiamo via da questo posto perché qui si muore tutti.», dall’altra, invece, ci fu chi ritenne più giusto non muoverci sostenendo che, avendo viaggiato di notte nel più assoluto silenzio e senza lasciare tracce, nessuno poteva sapere che eravamo nel Casone.
Verso le ore 10 dal Passo della Scoglina spuntarono i primi reparti nemici che scendevano verso Favale. La colonna era formata da “repubblichini” del Battaglione Aosta, della Divisione Monterosa e da reparti tedeschi. A questo punto alcuni di noi vennero inviati di pattuglia per accertarsi che non ci fossero altre colonne nemiche convergenti su di noi da altre direzioni: la distanza tra noi e i nazi-fascisti era tale che, muovendoci con cautela, non potevamo essere individuati. Ad agevolare un’eventuale nostro sganciamento c’era un canalone che dal Casone portava alla vetta, che ci avrebbe protetto alla vista di chi si trovava sul versante opposto.
Ma l’idea di non muoverci prevalse e nel Casone subentrarono una certa rassegnazione e una manifesta paura. In quel clima ci si avviò verso la tragedia.
La colonna nemica continuò la sua discesa verso Favale e, arrivati alle due casupole, i nazi-fascisti le dettero alle fiamme. E qui si doveva capire che le cose stavano volgendo al peggio: era ormai chiaro che qualcuno li guidava in modo preciso sui nostri passi.
Banfi però non cambiò idea e continuò a seguire i movimenti da dietro le imposte delle finestre commentando a bassa voce che tutto procedeva bene. Verso le 16, Banfi si allontanò dalla finestra e disse che tutto era finito perché la colonna si era mossa dal paese andando verso Lorsica; a questa notizia si levò un urlo di entusiasmo subito raggelato dalle grida degli assalitori che, arrivati sotto il Casone, urlavano: «Arrendetevi banditi!». Attimi di panico e di smarrimento, poi cinque compagni uscirono di corsa per tentare di conquistare una posizione da cui contrastare gli assalitori, ma vennero falciati dalla prima raffica di mitragliatore. Il primo scontro si svolse nel raggio di 8 – 10 metri e nell’arco di poche decine di secondi: Carlo 3°, uno dei cinque colpiti si rialzò da terra e con un braccio teso e tre dita della mano aperte gridò: «Sono solo tre!», ma una seconda raffica lo colpì in pieno petto scagliandolo contro un albero di rovere. Aveva ragione perché i primi ad arrivare sotto la casa furono due mitraglieri e un sergente.
Franco, commissario della Brigata Berto, ferito alle gambe, rimase a terra immobile e questa decisione gli salvò la vita; Rino, ferito in modo leggero, si gettò lungo il pendio, mentre Milio e Poli, colpiti a morte, rimanevano a terra vicini a Franco.
In quel trambusto infernale, quelli di noi che erano usciti di pattuglia al mattino e conoscevano meglio il terreno circostante si avviarono verso il canalone che portava sulla cresta del monte. Fra questi c’era anche Balin che camminava davanti a me e, arrivato su una piccola roccia, anziché scavalcarla si accasciò a terra gridando: «Mamma, mamma!». Gli urlai: «Balin alzati!», credendo che fosse inciampato; invece era stato colpito alle gambe. Scavalcandolo, mi voltai verso il basso e vidi il sergente “repubblichino” che imbracciava il mitra e gridava come un’ossesso: «Arrendetevi vigliacchi!»; ci scaricò contro un’ultima raffica con la quale colpì a morte il povero Balin. Io, protetto dal suo corpo, mi salvai.
Nel gruppetto uscito dal Casone c’era un partigiano con il fucile mitragliatore e questo per noi fu un provvidenziale punto di forza. Ci posizionammo sulla cresta del monte per bloccare un’eventuale accerchiamento, ma non ci fu alcun movimento in tal senso; si sentiva soltanto il crepitio delle armi automatiche e lo scoppio delle bombe a mano e questo ci dette la speranza che la situazione fosse migliorata.
La fase successiva ci fu raccontata da chi rimase nel Casone, ci fu detto: “che nell’istante successivo all’ultima raffica sparata contro Balin e mentre il Sergente repubblichino ricaricava l’arma, Totò gli scaricò contro una micidiale raffica col suo efficientissimo MAS, stendendolo a terra. Davide con altrettanta rapidità sparò contro i due mitraglieri, riducendo al silenzio quella maledetta mitraglia, imprimendo così una svolta alla drammatica situazione. A quel punto la circostanza si capovolse e l’iniziativa passò nelle mani dei Partigiani.
Tra i primi a portarsi alle finestre, il partigiano Punto che, con il suo “Bren”, decimò il secondo gruppo nemico che si stava avvicinando al casone. La battaglia continuò fino all’imbrunire con lancio di bombe a mano e con tutte le armi disponibili provocando la morte di 12 “repubblichini” e un numero imprecisato di feriti (ciò venimmo a sapere, alcuni giorni dopo il conflitto, dagli abitanti di Favale, che assistettero al trasporto a valle dei nazi-fascisti caduti e di quelli feriti).
Da parte nostra i caduti furono cinque: Balin, Carlo 3°, Milio, Poli e Nino; i feriti quattro, dei quali Franco e Rino furono i più gravi. Di Vino nessuno ha saputo dire quando e dove fu colpito; si seppe solo che il suo corpo fu recuperato nelle vicinanze del casone.

Oltre ai caduti, purtroppo, lasciammo sul terreno anche Franco cui la sorte non fu favorevole in quanto la battaglia finì quando era già buio e i compagni che recuperarono le armi dei nostri caduti, quella di Franco e quelle dei repubblichini, lo fecero nel massimo silenzio. Franco, pensando che fossero i nazi-fascisti, rimase immobile e cosi sfumò la possibilità di portarlo via con noi. Col passare del tempo Franco si rese conto che nel casone e nelle vicinanze non c’era più nessuno e con fatica e dolore, facendosi forza con le sole braccia, dato che le gambe erano ferite, cominciò a salire palmo a palmo il pendio. Trascorsero ore prima che raggiungesse la cresta del monte, ma, quando pensava di essere fuori pericolo, mentre il campanile del paese batteva le 10 di notte, fu investito da un fascio di luce blu e un gruppetto di fascisti lo assalì con calci e pugni ricoprendolo d’ingiurie. Solo l’intervento di un ufficiale tedesco pose fine a quel linciaggio. Fatto prigioniero dai tedeschi venne trasportato all’ospedale di Chiavari in attesa di essere fucilato.
Quanto segue è ciò che successe in paese prima dell’attacco al Casone e che ci fu riferito dalla gente del posto.
Nel momento in cui la colonna nazi-fascista entrava in Favale, un gruppo di bersaglieri travestiti da partigiani raccontò di essere inseguito dai tedeschi e chiese di poter raggiungere i partigiani. Un ragazzo, ingenuamente, disse ai falsi partigiani di aver visto i guerriglieri nei pressi del casone di Centonoci, mentre stava pascolando le pecore, indirizzandoli,involontariamente, verso di noi.

Nel mese di gennaio iniziarono le trattative con i tedeschi per uno scambio di prigionieri. A Borzonasca Franco venne scambiato con un ufficiale tedesco già prigioniero dei partigiani.
Va ricordato che Borzonasca è il paese in cui il 21 maggio dell’anno precedente un gruppo di fascisti locali presenti alla fucilazione del partigiano Severino applaudiva entusiasta al grido di «Viva Spiotta!», boia e torturatore di partigiani e di antifascisti che, con le sue squadracce, terrorizzò le popolazioni dei paesi delle vallate nella zona del Levante.
Non mi spiego perché quanto è accaduto a Centonoci non sia stato riportato nemmeno dal giornale “Il partigiano”, stampato in montagna. Nel giornale si trovò soltanto un cenno di riconoscimento al merito per il Comandante Davide, senza però precisarne la motivazione, mentre della battaglia di Centonoci parlò Radio Londra la sera del 27 dicembre 1944 quando, con il nostro distaccamento, eravamo accantonati nel paese di Magnasco in Val D’Aveto. A quel tempo il mio nome di battaglia era Castagnino .
Nel mese di febbraio lasciai il mio distaccamento, che in quel periodo si trovava nel paese di Castagnello, nelle vicinanze di Paggi, e passai nella Brigata Volante Severino, guidata dal Comandante Gino. La Severino operava alle porte di Genova avendo la sua base tra San Martino di Struppa, Montoggio e Davagna, prevalentemente nei paesi di Campoveneroso, Noci, Canate ecc., poi alla periferia della città stessa: San Siro, Prato, Doria, Ligorna ecc.

Fonti: http://www.comitatoge40.org/Pagine_Ermes.htm

Giovanni Battista Bazurro “Il partigiano racconta” – Testimonianze di vita partigiana (Erga edizioni)

Clicca per visualizzare il casone sulla Mappa digitale della Resistenza nel Tigullio.

L’eccidio al Mulino di Gattea, 29-30 Dicembre 1944

Nelle giornate tra il 29 e il 30 dicembre 1944, vi fu un rastrellamento attuato dai nazifascisti, principalmente allo scopo di catturare Don Bobbio, capellano della Brigata Garibaldina “Coduri”, che la notte di Natale del 1944 celebrò messa nella piccola frazione montana di Valletti (Varese Ligure), alla quale parteciparono molti partigiani anche i cosiddetti “mangia preti”.

Fu così che quattro a giorni da quella funzione religiosa, radunarono la popolazione e perquisirono le case. Vennero uccisi, in quanto ritenuti legati ai partigiani, Sanguineti Andrea Enrico, Ghiggeri Vittorio e, secondo le fonti, una terza persona il cui nome non è stato possibile accertare. In seguito i tedeschi si ritirano dal paese.

Un reparto della divisione alpina Monterosa della RSI accerchia e sbaraglia un concentramento partigiano in località mulino di Gattea, uccidendo otto partigiani della “Coduri” e facendone prigionieri una trentina:

I caduti: “Baetta Ettore “Benzina” – Bucciarelli Canzio “Bussola” – Latiro Giuseppe “Rizzo” – Bordone Carlo “Paris” – Merani Giacomo “Ne” – Lucini Raffaele “Foglia” – “Dallorco Cesare “Biella” – Cavallero Pietro “Sciarpa”

Gli alpini occuparono inoltre Valletti compiendo saccheggi, incendiando alcune case e uccidendo Agostino Nicora, che aveva intasca due bossoli.

Quando fu evidente che Valletti sarebbe stata occupata, il sacerdote non cedette alle insistenze del Comando partigiano di mettersi in salvo, volle restare, sia come estrema difesa per i suoi parrocchiani, sia perché non intendeva ancora rinunciare al suo generoso obiettivo.

La canonica fu presa d’assalto come un fortino, devastata, in seguito data alle fiamme come gran parte del paese. Don Bobbio, prima di essere trascinato via, dette ancora la sua assistenza a due giovani poi fucilati dai tedeschi e cercò di tranquillizzare la madre. Il calvario continuò nella notte e durante una sosta lo tennero legato a una palizzata, nel turbine della neve, poi con una corda legata al collo per i sentieri che attraverso Comuneglia e Cassego portano a Santa Maria del Taro; infine in autocarro fino al carcere di Chiavari e, di lì, dopo due giorni di totale isolamento, per ordine di Vito Spiotta fu fucilato senza processo al poligono di tiro il 3 gennaio 1945.

Nei giardini di Chiavari, liberata nel 1945, come le altre città del golfo del Tigullio, dai partigiani della Brigata d’assalto Garibaldi “Coduri”, c’è un busto che raffigura don Bobbio. Un’epigrafe, composta dal partigiano Giovanni Serbandini Bini, ricorda:

Quando gli chiesero – al poligono di tiro – se voleva pregare prima di morire – ai nazifascisti rispose – «Io sono già a posto con la mia coscienza ma pregherò per voi» – e cadde con le mani in croce – Don Bobbio – parroco di Valletti e della Coduri – a testimoniare – con serena fermezza – cristiana e partigiana – il valore di un’intesa – salvatrice della patria e dell’umanità“.

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L’Eccidio dei Martiri dell’Olivetta (Portofino). Il racconto di un testimone.

Nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1944 furono fucilati sulla spiaggia dell’Olivetta ventidue prigionieri politici prelevati dalla IV sezione del carcere di Marassi. Legati l’uno all’altro con filo di ferro, i corpi delle vittime furono caricati su barche e, zavorrati con pesanti pietre e gettati al largo in mare.

L’eccidio avvenne in segreto, da parte dei tedeschi, coadiuvati dal vessatore repubblichino Vito Spiotta, capo delle Bande Nere di Chiavari. Solo dopo la fine della guerra fu possibile risalire all’identità delle vittime.

In questo articolo vi raccontiamo una testimonianza diretta.

LA STORIA :
21 Partigiani e un detenuto, furono prelevati di notte dal carcere di Marassi dai Nazifascisti e furono trasportati nel Castello di Portofino dove si era insediato un tenente della Marina tedesca, Ernst Reimers, che aveva allestito delle celle nella torre, dove poi sono state trovate varie scritte di prigionieri rimasti sconosciuti, e che aveva fama di torturatore e assassino.

Dopo torture e pestaggi i corpi dei prigionieri vennero legati assieme, con fil di ferro e reti, caricati su un barcone, che fu poi visto insanguinato, e gettati in mare con una zavorra di pietre. Si sa che alle operazioni parteciparono componenti delle Brigate Nere a capo del vessatore del Tigullio Vito Spiotta.
Di seguito la testimonianza diretta di Silicani Giuseppe:

«I tedeschi mi avevano ingaggiato per fare il turno di notte al compressore. Ebbene quella notte non m’ero accorto di nulla perché il compressore faceva un rumore d’inferno. A un tratto mi si avvicinò un fascista che mi ordinò di fare bene attenzione che il motore non s’arrestasse. Fu allora che m’accorsi del cellulare che s’era fermato sulla piazzetta, e dei tedeschi che facevano scendere quei poveretti e li mettevano in fila, schierati davanti al muro antisbarco. Contai ventidue ragazzi, ne ricordo esattamente il numero; e molti di loro s’erano messi a piangere, mentre uno si stava raccomandando a questo, a quel tedesco dicendo ch’era un grosso sbaglio, che lui non c’entrava, non era mai stato partigiano, aveva fatto soltanto il ladro e per questo non potevano ammazzarlo».

S’arrestò per indicarmi una finestra al primo piano della casa che fa angolo sulla strada del Faro: «Lì – mi disse – abitava un’amico mio ch’era falegname. Si chiamava Pirè, ed ora è morto: s’affacciò alla finestra, il poveruomo e gridò: “vieni a prenderti il caffè, Beppe…”. Il fascista s’era allontanato e vicino a me era rimasto il tedesco che conoscevo un poco: gli dissi che andavo su dal Pirè a prendere un caffè e sarei subito ritornato, e lui mi lasciò andare. Restammo lassù, dietro quelle persiane, carichi di paura… Quando i tedeschi ebbero finito di frugare quei poveri ragazzi e gli ebbero tolto tutto quel che avevano indosso – qualche capotto, dei maglioni – il comandante li incolonnò, incatenati l’uno all’altro come bestie che si portano al macello… Proprio così…».

Dopo una pausa, si asciugò la fronte, eppoi riprese: «Stemmo un’ora e forse più, non si sentiva che il rumore di quel compressore. A un certo punto il Pirè parve di sentire delle raffiche di mitra che provenivano dall’Olivetta, ma io dicevo di no, che era il compressore che ogni tanto perdeva colpi; “Vedrai” gli dicevo, “che li hanno portati in torre per interrogarli eppoi li riportano qui…”. Sulla piazzetta c’erano tre o quattro fascisti che stavano chiacchierando col conducente del cellulare: finalmente dalla stradetta del Faro sbucarono di gran corsa tedeschi e fascisti, e uno di loro, forse il comandante, si rivolse al conducente: “Su, partiamo svelti, che la frittata ormai è fatta…”. Proprio queste parole disse: e tutti, in gran confusione, s’imbarcarono e il cellulare se ne partì. Allora scesi a fermare il compressore e per terra trovai un fazzoletto con 37 lire e quel mattino stesso lo consegnai al parroco della chiesa di S. Giorgio…».

Concluse: «Tanto orribile è stato questo massacro che a Portofino nessuno vuole sentirne parlare… come se fosse una vergogna per il paese… Gli scogli dell’Olivetta imbrattati di sangue… le reti sul molo scomparse, e così i rottami di ferro… Tutti lo sanno…».

Per l’elenco dei caduti, apri la mappa digitale della Resistenza sul monte di Portofino ⬇️

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Docufilm sull’eccidio di Portofino:

Presentazione della Mappa digitale, i prossimi appuntamenti:

In occasione delle iniziative per il centenario dalla nascita del Comandante Aldo Gastaldi “Bisagno”, è stata presentata la Mappa dei Luoghi della Resistenza nel Tigullio.

Per l’occasione le Sezioni ANPI del Tigullio e del Golfo Paradiso, hanno ristampato la vecchia mappa cartacea integrandola con il QR code, che rimanda alla nuova mappa digitale ed al sito.

Dopo l’evento presso i laboratori di WyLab a Chiavari (clicca qui per il video), e la presentazione di Venerdì 8 ottobre presso lo “Spazio Aperto” di Santa Margherita Ligure (vedi qui le foto), un nuovo incontro è stato organizzato per Venerdì 3 Dicembre dall’attivissima Sezione A.N.P.I. “Solimano Berto” di S.M.L.-Portofino-Rapallo.

Per questa occasione la sede sarà il Teatrino di Portofino, evento patrocinato dal Comune ospitante e dai i Servizi bibliotecari del Comune di Santa Margherita Ligure.

Ricordiamo che la Mappa sarà disponibile presso tutte le sezioni ANPI del Tigullio e del Golfo Paradiso.

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