Il mese di maggio 1944, cosi’ come i mesi successivi di quell’anno, segnarono in maniera indelebile la storia d’Italia ed in particolar modo quella dei territori Ligure ed Emiliano.
Le SS tedesche in collaborazione con i fascisti italiani, che aderirono alla Repubblica di Salò, si macchiarono di efferati eccidi e trucidazioni a danno della Resistenza e della popolazione civile.
Migliaia furono le vittime che a loro malgrado in quel momento si ritrovavano dietro la linea gotica, ultimo fronte di difesa dell’invasore nazista.
Ciò che proverò a fare nelle prossime righe sarà quello di raccontare una vicenda poco conosciuta, se non attraverso qualche cenno sui libri che parlano della lotta di Resistenza locale.
Due storie che ho incrociato per caso durante una gita in montagna con la famiglia, dove una piccola cappelletta bianca a bordo strada ha attirato la mia attenzione, all’interno una lapide sulla quale sono incisi i nomi di due persone poco più che adolescenti.
Sono due giovanissimi ragazzi, Giuseppe Pavesi di anni 21 (Partigiano) e Savina Lusardi di anni 17, vivevano sul confine tra l’Emilia e la Liguria ed esattamente ai piedi del Monte Penna, in piccole frazioni del Comune di Bedonia (in provincia di Parma).
Ho iniziato cosi’ una personale ricerca, e grazie anche all’aiuto di alcuni amici dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, scopro che Giuseppe Pavesi ha combattuto per la Lotta di Liberazione:
Nasce il 22/09/1923 a Bedonia, deceduto (fucilato) il 24/05/1944 a Prati di Setterone ai piedi del Monte Penna. Fu Partigiano dal 15/02/44 nella 32° Brigata Garibaldi “Monte Penna”.
Dopo aver pubblicato un post sui social media conosco Giovanni Calzi, cugino di Giuseppe, che per mia fortuna legge quanto ho scritto e si mette a disposizione per mettermi in contatto con il fratello del Partigiano Pavesi, il suo nome è Zeffirino (classe 1938).
Nel frattempo il Presidente ANPI della provincia di Parma, Aldo Montermini, mi scrive riportando dei riferimenti tratti dal libro: “L’Alta Val Taro nella Resistenza” di Giacomo Vietti (ANPI – Parma 1980).
Il libro racconta dei rastrellamenti operati dalle truppe tedesche e dai militi della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) nel maggio del 1944. Precisamente il 23, 24, 25, pochi giorni prima della costituzione del Libero Territorio della Val Taro, anche se breve, esperimento di amministrazione civile partigiana di un territorio liberato.
In particolare sono due le pagine sulle quali focalizzare l’attenzione.
A pagina n. 180 si parla di Giuseppe “falciato mentre cerca di sganciarsi dall’accerchiamento”.
Mentre a pag. 182 si legge: “Nel corso del rastrellamento viene pure uccisa a Costa d’Azzetta una ragazza di 17 anni, Lusardi Savina, la quale sorpresa da una pattuglia di tedeschi mentre pascolava le pecore ed impauritasi alla vista dei soldati viene uccisa a colpi di fucile mitragliatore mentre cercava di scappare”.
Qualche giorno più tardi riesco a parlare con Zeffirino Pavesi, dalla sua testimonianza riaffiorano i risvolti più atroci di queste due vicende, che accadono a poche ore l’una dall’altra ed entrambe avranno epiloghi drammatici.
Zeffirino fotografa così le due storie e con lucidità mi racconta dettagli inediti:
Giuseppe incontra il suo assassino durante una sosta in un casolare a Prati di Setterone, insieme ad altri due compagni di brigata, mentre una contadina si apprestava a rammendare i vestiti malconci dei tre Partigiani.
Accade tutto molto velocemente, vengono accerchiati da un gruppo di fascisti della GNR che gli scaricano addosso i proiettili in canna nei loro fucili, Giuseppe nell’estremo tentativo di opporre una difesa spara, il colpo scalfisce in fronte l’assassino Repubblichino.
Non è un colpo mortale, come quello che invece subisce Giuseppe, ma lascia comunque sul volto della camicia nera una cicatrice che permetterà ai parenti di Pavesi di riconoscerlo una volta conclusa la Lotta di Liberazione.
Ai contadini, testimoni di questa terribile scena, non resta che il corpo di Giuseppe da seppellire poco distante dal casolare.
Solo qualche giorno più tardi la famiglia riuscirà a recuperarlo, lo fecero di notte con le slitte e i buoi, mettendo a rischio la loro stessa vita perché i nazifascisti presidiavano ancora la zona.
Giuseppe fu così seppellito definitivamente a Spora (frazione di Bedonia), insieme alle spoglie di Savina.
Savina Lusardi era una giovane contadina di diciassette anni, abitava nella frazione di Costa d’Azzetta e proprio in quel luogo si trovava un comando nazista, che presidiava la vallata con mitragliatrici poste in prossimità del rifugio del Monte Penna.
Nella giornata del 24 Maggio 1944, Savina insieme alla sorella Anna e all’amico Andrea Lusardi, chiedono il permesso al comando tedesco per poter risalire la strada verso il Penna per poter recuperare il bestiame al pascolo, una volta ottenuta l’autorizzazione si incamminano verso il monte.
Giunti in prossimità del Passo della Tabella vengono travolti da una raffica di mitra, i tre si gettano d’istinto in un canale ma senza pietà alcuna furono seguiti dai Repubblichini e lì Savina incontrò la morte.
La sorella Anna, nonostante due colpi di mitra all’addome, riuscì a salvarsi così come Andrea, colpito da una pallottola che entrata da sotto l’occhio gli fuoriuscì dall’orecchio.
La preziosa testimonianza di Zeffirino Pavesi mi lascia senza fiato, quindi mi chiedo che senso abbia sparare contro civili disarmati che hanno avuto come unica colpa quella di dover portare avanti il proprio lavoro di contadini? Qual è il senso di colpire per uccidere chi è inerme?
Ovviamente non ho altra risposta a queste mie domande se non quella di una vile e cieca barbarie innescata da un’ideologia di sopraffazione e disumanizzazione, come furono temporalmente prima quella fascista e poi quella nazista.
La pacatezza di Zeffirino nel racconto di quei terribili momenti, che nelle parole non lascia trapelare alcun rancore, mi riconcilia.
Nonostante siano trascorsi 76 anni, il ricordo del fratello maggiore e della cugina Savina è ancora vivo. Un ricordo indelebile, che insieme ai parenti li ha spinti a celebrarne la memoria con la costruzione di una piccola cappella bianca sul Monte Penna.
Zeffirino ancora oggi, nonostante il peso degli anni, mantiene vivo quel luogo con visite costanti nel tempo e fiori.
Il nostro compito oggi è quello di raccogliere queste testimonianze per non abbandonarle all’oblio.
La memoria è un dovere e solo se mantenuta correttamente con pervicacia può garantirci un futuro di democrazia e pace.
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