Nel 1923, tre anni dopo il Trattato di Rapallo (che ridisegnò i confini dell’Italia nord-orientale annettendo Gorizia, Trieste, Pola e Zara), il regime fascista intraprese una politica di italianizzazione forzata nei confronti della comunità slovena. Politica che, successivamente, fu estesa a tutto lo stivale.


Con la legge n. 2185 del 1/10/1923, fu abolito l’insegnamento della lingua slovena nelle scuole. Non solo, parlare una lingua che non fosse l’Italiano (in questo caso la lingua slava) venne assolutamente vietato in tutti i luoghi pubblici.
Ma non era abbastanza: anche la toponomastica subì l’italianizzazione.
Migliaia di cognomi di origine slava e croata vennero modificati e tradotti in italiano.

Il costume de Il Popolo d’Italia il 10 luglio 1938, scriveva:
«Basta con gli usi e costumi dell’Italia umbertina, con le ridicole scimmiottature delle usanze straniere. Dobbiamo ritornare alla nostra tradizione, dobbiamo rinnegare, respingere le varie mode di Parigi o di Londra o d’America. Se mai, dovranno essere gli altri popoli a guardare a noi, come guardarono a Roma o all’Italia del Rinascimento… basta con gli abiti da società, coi tubi di stufa, le code, i pantaloni cascanti, i colletti duri, le parole ostrogote»
La politica di snazionalizzazione operata dal fascismo partì già dagli anni ’20, così nella Venezia Giulia vennero progressivamente eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croate rinnovate dopo la prima guerra mondiale.
Le scuole furono tutte italianizzate, gli insegnanti in gran parte pensionati, trasferiti all’interno del regno, licenziati o costretti ad emigrare.
Vennero posti limiti all’accesso degli sloveni nel pubblico impiego, soppresse centinaia di associazioni culturali, sportive, giovanili, sociali, professionali, case popolari, biblioteche, partiti politici e stampa vennero posti fuori legge.
Fu eliminata qualsiasi rappresentanza delle minoranze nazionali e proibito l’uso della lingua, le minoranze slovena e croata cessarono così di esistere come forza politica.
Furono migliaia le vittime della politica di “snazionalizzazione” e repressione del regime fascista in terra slava, sotto la guida dei generali Roatta e Robotti, che il 4 Agosto 1942 sentenziò: “Si ammazza troppo poco”.
Il generale Robotti fu sempre al comando dell’XI Corpo d’Armata e funse da capo militare nella provincia annessa di Lubiana occupata dall’esercito regio, in tale veste fece rispettare scrupolosamente le istruzioni del generale Mario Roatta riguardanti i metodi di repressione ed istruì egli stesso le truppe a procedere con durezza contro la popolazione civile ritenuta complice dei partigiani.
L’incendio del Narodni dom (casa della nazione) a Trieste il 12 Luglio 1920, da parte del movimento fascista che diede l’avvio alla “bonifica etnica” delle minoranze slave; la consegna ai nazisti, da parte delle autorità fasciste di Salò, di migliaia di ebrei votati a sicura morte; la repressione nazionalista fascista che portò 100 mila Sloveni, fra cui molti bambini reclusi nei campi di concentramento di Arbe/isola di Rab (in Dalmazia) dove persero la vita 1435 civili o di Gonars (nel Friuli) e Renicci (Arezzo), e anche la Liguria non ne fu esente (vedi la mappa digitale).
Ciò avvenne con i processi dinanzi alle corti militari, con il sequestro e la distruzione dei beni, con l’incendio di case e villaggi. Migliaia furono i morti, tra caduti in combattimento, condannati a morte, ostaggi fucilati e civili uccisi.
I deportati furono approssimativamente 30 mila, per lo più civili, donne e bambini e molti morirono di stenti.
Furono concepiti pure disegni di deportazione di massa degli sloveni residenti nella provincia.
La violenza raggiunse il suo apice nel corso dell’offensiva italiana del 1942, durata quattro mesi, che si era prefissa di ristabilire il controllo italiano su tutta la provincia di Lubiana.
Improntando la propria politica al motto “divide et impera”, le autorità italiane sostennero le forze politiche slovene anticomuniste specie d’ispirazione cattolica le quali, paventando la rivoluzione comunista, avevano in quel modo individuato nel movimento partigiano il pericolo maggiore e si erano rese perciò disponibili alla collaborazione.
Esse avevano così creato delle formazioni di autodifesa che i comandi italiani, pur diffidandone, organizzarono nella Milizia volontaria anticomunista, impiegandole con successo nella lotta antipartigiana (fonte relazione della commissione Italo-Slovena).
La morte nei campi italiani sopraggiungeva per malattia ma soprattutto per fame, le calorie giornaliere che potevano assumere gli internati erano circa 800 al giorno, praticamente un terzo di quelle minime necessarie alla sopravvivenza.
Questo nell’autunno del 1942, portò il tasso di mortalità nei campi di concentramento al 19%, un valore superiore a quello dei lager nazisti (stimata in circa 16 mila vittime).

Solo in Liguria i campi di concentramento per le popolazioni del confine orientale erano quattro (vedi la mappa digitale):
Torriglia (Genova) Campo di concentramento per congiunti di ribelli della provincia del Carnaro.
Cairo Montennotte (Savona) Campo per prigionieri di guerra Greci e civili Sloveni, il campo viene destinato all’internamento dei civili, in particolare quelli della Venezia Giulia. Il campo si trovava dove oggi sorge lo stadio “Cesare Brin” – una lapide in marmo ricorda “In questo luogo – si legge sulla targa – sorgeva il campo di concentramento nr 95. Da qui, l’8 ottobre 1943 furono deportati nei lagher di Mauthausen 999 prigionieri civili. A loro il nostro ricordo“.
Spotorno (Savona) Internamento di civili Croati. Il 16 luglio 1942 a Spotorno vengono internate 29 persone tutte provenienti dalla cosiddetta provincia del Carnaro (il nome assegnato al territorio jugoslavo annesso all’Italia nel 1942 con al centro la città di Rijeka, cioè Fiume). I locali dove furono alloggiati gli internati croati si trovavano presso il Teatro San Filippo Neri, edificio demolito negli anni ’60 del secolo scorso per fare spazio alla costruzione della nuova caserma dei Carabinieri.
Pieve di Teco (Imperia) Campo d’internamento per civili Jugoslavi.
Tra i numerosi linguisti e intellettuali favorevoli al processo di italianizzazione, non poteva di certo mancare il poeta-“vate”. Termini come tramezzino (al posto di sandwich) ed espressioni come eja eja alalà! (al posto di hip hip hurrà) sono da attribuire proprio a Gabriele D’Annunzio.
Furono più di 500 le parole tradotte in italiano, dai termini della sofisticata cucina francese ai termini inglesi utilizzati per lo sport, passando per i nomi propri di persona (George Washington divenne Giorgio Vosintone, Louis Armstrong fu Luigi Braccioforte) e le città straniere come Buenos Aires, Buonaria.

Clicca per visualizzare la Mappa digitale della Resistenza nel Tigullio.
Fonte: https://www.archeome.it/approfondimento-le-parole-proibite-dal-fascismo/